“Non è importante essere uomo o donna, ma essere umano”: conquista il pubblico del Festival della Valle d’Itria 2024 “Ariodante” di Georg Friedrich Händel nella visione di Torsten Fischer e la direzione di Federico Maria Sardelli

“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…”: già nel distico iniziale dell’“Orlando furioso” è rappresentata l’ideale unione tra poesia e musica. “Un risplendente labirinto” costituito di sogni fu l’elogio di Borges al capolavoro dell’Ariosto, considerato la prima grande opera di letteratura moderna della cultura occidentale.

I primi 40 canti furono pubblicati nel 1516, ma ad attirare l’attenzione dei più celebri madrigalisti non solo italiani – attratti da quella musicalità dell’“ottava d’oro” che superava i precedenti del Pulci e del Boiardo – fu la terza edizione del poema del 1532, stampato un anno prima della morte del suo autore.  La ricezione musicale del Furioso è infatti postuma, eccezion fatta per la frottola “Queste non son più lagrime che fore”, prima stanza musicata dell’“Orlando furioso” di cui rimanga testimonianza, inserita nel Quarto libro di canzoni, sonetti, strambotti e frottole stampato a Roma nel 1517 da Andrea Antico e intonata da Bartolomeo Tromboncino; e il madrigale sulla stessa stanza, pur con una diversa redazione del testo, di Philippe Verdelot, pubblicato nel 1541 ma precedente al 1530.  

Ma è con la nascita dell’opera che il testo diventa ispirazione per librettisti e compositori che possono attingere ai tanti episodi narrati, soprattutto fra ‘600 e ‘700.  Un felice esempio sono gli episodi su Ginevra e Ariodante, tratti dai canti IV, V e VI del poema ariostesco, che trovarono nella creatività di Händel una delle massime espressioni.

E proprio “Ariodante”, il secondo pannello del trittico ariostesco del compositore di Halle (autore anche di “Orlando” e “Alcina”) è andato in scena con grandissimo successo al Teatro Verdi di Martina Franca come secondo titolo della 50esima edizione del Festival della Valle d’Itria, la terza con la direzione artistica di Sebastian F. Schwarz. Assente dai teatri e festival italiani da oltre dieci anni e proposto in occasione dei 550 anni della nascita di Ludovico Ariosto, l’opera è stata una novità assoluta per le scene pugliesi. Il suo compositore Händel invece ritorna in Valle d’Itria dopo sei anni, quando nel 2018 andò in scena con grande successo il “Rinaldo” “rivisto” da Leonardo Leo. 

Nelle dotte note del libretto di sala il musicologo Dinko Fabris ricorda che questo soggetto, o la sua controparte Ginevra, «si trovano rappresentati sulle scene d’opera oltre 30 volte tra il 1865 e il 1800 e altre 11 volte nel corso dell’Ottocento con un’unica interessante appendice nel Novecento, prima del revival delle rispettive opere barocche: Nino Rota fu l’ultimo compositore ad affrontare la vicenda di Ariodante a Parma nel 1942. Quasi tutte le versioni settecentesche sono basate sul libretto scritto da Antonio Salvi che ebbe la sua prima a Pratolino (Firenze) nel 1708, compreso il libretto usato da Händel nel 1734».

L’opera aprì l’8 gennaio 1735 la prima stagione operistica del Covent Garden di Londra gestito all’epoca dall’impresario John Rich, sfidando la concorrenza dell’Opera della Nobiltà. Il successo fu abbastanza modesto, testimoniato dalle sole 11 repliche, e non andò meglio nella ripresa dell’anno seguente. Dovettero passare quasi due secoli per vedere rinascere questo autentico capolavoro con la prima ripresa moderna a Stoccarda nel 1926, cui seguirono altre produzioni internazionali che lo rimisero in repertorio.

La trama racconta la vicenda del principe Ariodante e della sua promessa sposa Ginevra, figlia del re di Scozia. Per mezzo di un elaborato raggiro e con la complicità di Dalinda, dama di compagnia di Ginevra, Polinesso riesce nell’intento di far credere ad Ariodante di godere anch’egli dei favori della principessa. Ariodante, che è stato visto gettarsi da una scogliera, viene creduto morto, mentre Ginevra viene condannata a morte dal re, suo padre, a causa delle calunnie sulla sua supposta immoralità. Polinesso, tuttavia, ferito a morte in un duello da Lurcanio fratello di Ariodante, confessa il suo raggiro prima di spirare; Ariodante e Ginevra possono finalmente unirsi in matrimonio. 

Al festival della Valle d’Itria viene proposta la nuova edizione critica a cura di Bernardo Ticci che si è basato sull’autografo handeliano conservato presso la British Library di Londra privo delle danze, aggiunte in occasione della prima ed imposte dall’impresario che disponeva di una compagnia di ballo. Sul podio dell’eccellente orchestra barocca Modo Antiquo, uno specialista del calibro di Federico Maria Sardelli, al terzo e ultimo anno di residenza artistica al festival, la cui direzione si è rivelata ancora una volta esemplare per chiarezza di gesto e precisione negli attacchi, vibrante all’occorrenza ma sempre attenta a cesellare perfettamente ogni passaggio della partitura. La parte che dà il titolo all’opera fu scritta per il castrato Giovanni Carestini, ma Sardelli invece di affidarla a un controtenore ha optato per una voce da mezzosprano en travesti come ha ribadito nel libretto di sala: «è ormai mio costume, da molti anni a questa parte, cercare di andare in controtendenza rispetto all’attuale mondo della musica barocca, diventato un fenomeno d’arte contemporanea sempre più soggetto a mode, vezzi e smorfie e sempre meno interessato a confrontarsi con la storia. Uno dei caratteri più macroscopici di questo nostro barocco contemporaneo è senz’altro l’uscita delle voci di falsetto dalle cantorie delle chiese e la loro disseminazione sulle tavole dei palcoscenici, come, surrogato dei perduti castrati. Nel nostro “Ariodante” martinese tanto Ariodante che Polinesso sono invece sostenuti da due donne che cantano il ruolo nel loro registro vocale naturale». A conferma della scelta filologica di Sardelli basti ricordare che sin dalla prima edizione Polinesso era interpretato da un contralto en travesti.       

La regia è di Torsten Fischer che nelle note racconta la sua scelta “Volubilità dell’amore, brama di potere, intrighi diabolici e di tradimento, di amore cieco… Attraverso la musica celeste di Händel viviamo un viaggio fra i mondi emotivi dei sentimenti umani. Ho cercato di tirare fuori la parte più pura dei personaggi e tutte le possibili sfaccettature dell’essere umano. Lo spettatore può ritrovarsi in questa storia come in uno specchio che riflette la vita dei nostri giorni. Senza distinzione di genere: non è importante essere uomo o donna, ma essere umano”.

Le scenografie minimali di Herbert Schäfer rischiarate dal candore brillante delle luci, hanno calamitato lo spettatore con cornici degradanti che avvicinavano ed ingrandivano i personaggi, spesso tutti in scena, memori dell’illusionismo barocco alla Borromini in palazzo Spada. Il nitore era interrotto da immagini evocative come la Sfinge di Khnopff o una grande luna in cui si perde Ariodante (ma anche Ariosto e noi). Vasilis Triantafillopoulos ha curato i costumi molto eleganti giocati sull’eterno contrasto del bianco-luce nero-buio e dialoganti attraverso tulle funerei o monacali.

Direzione, orchestra e cast impeccabili.

Cecilia Molinari nei panni di Ariodante, con la sua superba voce calda, rotonda e piena, ha dato prova di raffinato virtuosismo e padronanza scenica confermando di essere una interprete di riferimento anche nel repertorio barocco oltre che nel già apprezzato mozartiano e rossiniano. Indimenticabili pagine di palese difficoltà, “Con l’ali di costanza” aria piena di colorature e cadenze; e “Cieca notte, infidi sguardi” tratti di elegiaca e delicata vocalità come il velo in tulle che le adombrava il volto. Teresa Iervolino habituè a Martina Franca del Festival, già nel Rinaldo del 2018 e in Angelica del 2021, ha interpretato Polinesso con la sua riconoscibile voce sontuosa e agile, a suo agio nei panni en travesti, l’interprete con la maschera del cattivo memore di ricordi hard rock in contrasto con un impeccabile frac; Francesca Lombardi Mazzulli in Ginevra ha ammaliato con la ottima prova ricca di coloriture, il basso Biagio Pizzuti nel Re di Scozia, già a Martina nella Beatrice di Tende nel 2022 e nello stesso anno al Petruzzelli in Boheme e nel 2022 con Werther, ha dato una prova convincente con le sue coloriture scure e corpose. Ottima la prova di Theodora Raftis in Dalinda, sia nell’interpretazione scenica ricca di contrasti tra pause e riprese, sia nella voce accattivante e limpida, il martinese Manuel Amati in Lurcanio, ascoltato lo scorso anno nel Turco in Italia, ha evidenziato una buona e costante tenuta vocale ed infine Manuel Caputo nei panni di Odoardo, ha interpretato il ruolo con padronanza.

La recensione si riferisce alla prima del 22 luglio 2024.
Si replica ancora il 29 luglio.

Maria Agostinacchio
Foto di Clarissa Lapolla

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