Film da (ri)scoprire: “The Holdovers – Lezioni di Vita” di Alexander Payne, la ribellione all’imperativo dell’immanenza

Spesso ci convinciamo di essere i primi o gli ultimi a fare e pensare determinate cose, di essere creature senza passato e senza futuro. Al contempo, ci convinciamo di poter vivere per sempre. Il ritrovato della mindfulness, poi, ci ha convinti che “qui e ora” sia l’approccio cardine alle cose della vita. In un mondo di pensieri usa e getta, quindi, sembra ininfluente la considerazione del percorso che dal paniere di ricordi, traumi e lezioni ci lega alla storia fino ai grandi eventi del passato, alle reminiscenze e alle tracce ancestrali della notte dei tempi; prede del presente, non ci rendiamo conto di ciò che lasciamo o non lasciamo alla vicina di scrivania, al nipote, alla comunità, al pianeta.

Bloccate in questa dimensione sono le vite di “The Holdovers – Lezioni di Vita” di Alexander Payne. Fresco di un bouquet di premi di massima caratura, dall’Oscar per la migliore attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph su quattro candidature, al Golden Globe nella stessa categoria oltreché a Paul Giamatti per il miglior attore in una commedia/film musicale, il film è passato in quella che una volta era chiamata prima visione, “contro” pellicole ben più strombazzate come “Perfect Days” di Wenders e “Poor things!” di Lanthimos, forti dei loro percorsi festivalieri, in sordina, con una presentazione a un festival di cinema indipendente, il Telluride del Colorado, e una distribuzione nordamericana invero modesta. Il passaparola ha però premiato il film, che sta facendo grandi numeri in seconda visione, e ne sta chiedendo delle terze e delle quarte.

La storia è ambientata alla Barton, una scuola per figli di famiglie ricche, nel Vermont, negli anni Settanta. Qui, durante le vacanze di Natale, sono costrette a incrociarsi le vite di Paul Hunham (Paul Giamatti), odiatissimo professore di storia e letteratura antica, la cui preparazione corrisponde a una solitudine privata che pare inesorabile, a un sadismo neppure sottile nel trattare gli studenti, tutti maschi, e a una serie di difetti fisici che completano il rapporto problematico con essi; Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), cuoca vedova della scuola, il cui figlio, ex studente modello dell’istituto, è partito in Vietnam perché non poteva permettersi il congedo accademico dei ricchi, e lì ha perso la vita; Angus Tully (l’esordiente Dominic Sessa), studente bravo quanto sregolato, costretto a passare le vacanze natalizie a scuola perché non ha il padre e sua madre preferisce partire in viaggio di nozze col nuovo marito.

Le feste, che già normalmente acuiscono ogni nostalgia, sembrano un supplizio capitale, un naufragio su un’isola innevata come la scuola vuota, dove a un certo punto anche il riscaldamento viene spento, le provviste di cibo iniziano a scarseggiare e l’albero di Natale, piazzato e decorato a bella posta, a beneficio degli occhi delle famiglie venute a prendere i rampolli, viene smontato prima della Vigilia per essere rivenduto.

La convivenza forzata diventa una sfida reciproca di resistenza e tolleranza, ma pian piano il quieto vivere e i gesti di circostanza mettono a nudo un inconfessabile comune denominatore, tra un bicchiere di whisky e un pasto in refettorio: una disperazione la cui abissale profondità ha convinto tutti e tre i protagonisti della storia di aver meritato un’infelicità la cui dimostrazione plastica sono queste squallide feste di Natale.

E invece, lavorando sui fili che li connettono al proprio passato, e gettando un riflettore su un futuro che, volente o nolente, qualcuno dovrà pur vivere, e tanto vale farlo bene, i tre trovano un coraggio inaspettato e, chissà, la gioia di vivere.

Una poetica delicata, unita a una salacità mordace nei dialoghi e a una sceneggiatura senza tentennamenti, a servizio di una regia che non concede spazio a decelerazioni, fa volare le due ore e un quarto di film, alla fine del quale ci si sente fortunati, forse migliori, e chissà, fosse solo per un attimo, felici.

Beatrice Zippo

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