Conosco Nico Ferri, oggi responsabile e coordinatore del progetto Open Sound, dal lontano 2009 da quando cioè ho cominciato a seguire l’ufficio stampa del Pollino Music Festival, per diversi anni il festival estivo più importante della Basilicata organizzato per la prima volta nel 1996 da lui e pochi altri avventurosi giovani amanti della musica. Allestito a San Severino Lucano (un paese nel Parco Nazionale del Pollino dove durante le prime edizioni del festival era difficile trovare anche abbastanza cibo per sfamare la crew) il Pollino Music Festival è stato il palco di nomi come Gogol Bordello, Asian Dub Foundation, L’Orchestra di Piazza Vittorio e nella sua storia ha visto passare nel campo sportivo di San Severino più di 250 concerti e oltre 100.000 spettatori.
Di quei numeri e di quella esperienza oggi resta l’eco nelle orecchie di chi come me ha calpestato l’erba di San Severino nelle freschissime notti agostane sotto la luce puntuta di stelle così vicine da poterle contare una per una e l’idea di unire le sonorità della tradizione agropastorale lucana con i suoni del futuro. Nico Ferri infatti nel 2019 ha dato vita ad un progetto completamente nuovo, Open Sound, che ha come obiettivo quello di cercare un futuristico sound “nu-lucano” figlio di suoni ancestrali e nuovi approcci sonori. Dopo aver ospitato nomi del calibro di Dardust, Nu Genea, Ninos du Brazil, quest’anno Open Sound ha accolto a Matera James Holden, Bombino, Venerus, Thru Collected, Vladimir Ivkovic, Fossick Project, Paolo Angeli, Ko Shin Moon, Raffaele Costantino, Paolo Baldini Dubfiles, Dadub, Maxwell Simmons, Leila Rufus, Federico Nitti, TUTTIDJ.
Arrivato alla sesta edizione, il progetto percorre, incarna e racconta l’idea di Land Music Experience, ossia un’indagine sul paesaggio e sui territori fatta attraverso il suono, i ritmi e riti ancestrali che guardano al futuro. Ideato, prodotto e organizzato dall’Associazione Culturale Multietnica il festival ospita le avanguardie della scena euromediterranea portando avanti un’indagine sul paesaggio e sui territori fatta attraverso il suono, i ritmi e riti ancestrali che si rivelano pregni di futuro.
Se lo scorso anno mi sono letteralmente shakerata durante la bellissima performance di Ninos du Brasil e Nu Genea, quest’anno sono riuscita a seguire solo l’ultima serata del festival, quella del 3 agosto a Casa Cava, una serata che non ha assolutamente deluso le mie aspettative, a partire dall’allestimento di un luogo che non avevo mai visto così centrato nel suo utilizzo. Casa Cava è un auditorium allestito appunto nella pancia di una cava nel centro del centro storico di Matera: già normalmente entrare in questo antro antico è un’emozione ma viverlo nell’allestimento di Open Sound è stata un’esperienza assolutamente inedita grazie alle proiezioni sulle pareti screpolate e all’impianto suoni e luci del palco estremamente coinvolgenti. Ad aprire la serata Dadub: il progetto, fondato da Daniele Antezza e attualmente affiancato da Marco Donnarumma, ha curato e presenta dal vivo, in anteprima nazionale, la performance inedita per l’edizione 2024 del festival, realizzata a partire dai suoni e campionamenti contenuti nella Library di Open Sound. Di origini lucane, Daniele Antezza, con il suo progetto Dadub ha calcato prestigiosi palchi internazionali come il Sonar di Barcellona. La performance dal titolo “OSA 2.4 (Transhumance)” è costruita attorno al concetto di Transumanza sia per il legame di Antezza con il territorio di origine sia in riferimento al suo spostamento dall’Italia a Berlino e, non ultimo, per il richiamo al Transumanesimo e quindi al legame uomo/tecnologia.
Alla fine della prima performance dalle profondità della cava siamo risaliti tra i muretti e le scale dei Sassi dove era allestito il bar, era da tempo che non ritrovavo una situazione così rilassata eppure così effervescente, Dadub è riuscito molto bene a far partire la sera. A seguire Maxwell Simons producer, insieme a Rocco Rampino e Alioscia, del disco “OSA 2.3 – Reliving Lucania” la prima pubblicazione di Open Sound, che esce in vinile e in digitale in collaborazione con Hyperjazz Records, e infine la performance di James Holden produttore, remixer, dj, capo di un’etichetta discografica, maestro di synth, leader di una band, ingegnere del suono, sviluppatore di software, un musicista che decide di dedicarsi anima e corpo all’evoluzione di una label capace di raccogliere a sé i talenti elettronici meno allineati del nuovo millennio. E la performance funziona perché, a parte me che ho passato l’intera serata a sventagliarmi (ma ormai sono una vecchia signora), il pubblico ha completamente ignorato le sedute per ballare in ogni angolo rimasto vuoto dell’auditorium e i suoni del futuro si sono nutriti nella pancia del passato.
Simona Irene Simone
Foto di Avie Studio Foto