Nel cuore del Salento a Parabita, presso lo spazio espositivo Cava#01 di Giovanni Lamorgese fino al 30 settembre, Rosemarie Sansonetti espone le sue “Memorie svelate”, un ciclo di lavori realizzati dal 2003 al 2024.
La parola che risuona sin da subito nella mia mente è “ossimoro”.
Qui tutto sembra essere avvolto da religiosa quiete, ma la sensazione di ritorno da me percepita è di graduale turbamento destabilizzante, tanto da trasformare il silenzio in urlo assordante.
Il messaggio di ogni opera è semplice e lineare e il fruitore, non ha enigmi macchinosi da risolvere. Tutto è presentato in modo mai violento o prepotente, piuttosto accogliente ed invitante come un’esortazione al raccoglimento e alla riflessione.
I temi però sono forti e serve coraggio per affrontarli, cosicché l’artista sembra porli all’attenzione con la stessa delicatezza di chi deve comunicare qualcosa di non facile da dire.
Ed è così che su basi di plexiglass, illuminati come radiografie in piano, sono poggiati vestitini bianchi che rimandano alla vita o alla maternità, ma anche ad un’infanzia passata e non pienamente compiuta. Il tono dell’opera è nostalgico e malinconico tanto da suscitare amara dolcezza.
L’opera vicina, strettamente collegata, vede uova di quaglia a rappresentare “Embrioni” che racchiudono l’uomo che sarà. Come un albero e le sue radici, egli attende nutrimento dal latte materno, per diventare “essere ed esserci”. Il tutto è immerso in una luce calda che sprigiona purezza e straordinaria magia.
In “Autoritratto” l’artista teneramente si chiude gli occhi con le mani, ma quest’azione non indica il non voler vedere, piuttosto il suo contrario. Invita a cercare l’essenza e la verità che è in noi, come atto salvifico per la nostra anima. L’atto esclude momentaneamente il mondo esterno e si sofferma su quello interiore dando spazio alla percezione di tutti gli altri sensi corporali che con l’immaginazione possono essere amplificati e così accarezzati.
Lungo il percorso espositivo questi “stimoli” visivi, hanno una eco introspettiva molto forte che a volte fa male.
In “Dialogo” sono rappresentate in bianco e nero, su due fogli distinti, due sedie vuote che si guardano.
Sento tremare la terra sotto i piedi, dapprima piano, poi sempre più forte, come se fossi in prossimità di un vulcano che sta per eruttare.
Nell’opera la conversazione è solo evocata, perché le persone non esistono, gli attori dell’azione sono assenti, così come assente è la comunicazione.
Le parole sono taciute per ragioni oscure o forse per ragioni fin troppo chiare, così da farne un urlo muto. Il messaggio che ne deriva, provoca sgomento e suscita scalpore interiore poiché assente non è solo l’altro, ma noi.
L’altra sedia è anche uno specchio che non ci riflette e trasmette il vuoto. Il corpo è stato divorato dalla paura e la vita è un fantasma che fluttua infelice in un abisso cupo, melmoso e soffocante.
Una luce poi, impregna le pagine bianche ne “Il libro delle parole non dette”, affinché ciascuno possa leggervi quello che non è riuscito a dire.
La luce ha qui la funzione di aiutare ad uscire dalle tenebre per veder più chiaro ma, apostrofando Platone “La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”, ha paura di vedere.
Tutto quello che non si riesce a comunicare ci distrugge, come un verme che scava sempre più profondamente la nostra anima.
Il dramma ancor più grande è di non essere compresi, consapevoli comunque, che nessuno riuscirà mai a dare l’esatta misura di ciò che si soffre.
E’ così difficile capirsi, ma lo è ancor di più farsi capire, come se affannosamente cercassimo di farci vedere da un cieco o farci sentire da un sordo!
“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose così come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai!” (Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore)
Cecilia Ranieri
Foto dal web per concessione dell’artista e della Galleria