Tenersi con le mani alla memoria, che rende vita un’esistenza: così “Alcune cose da mettere in ordine” di Rubidori Manshaft per ‘Il Peso della farfalla’, la rassegna barese di teatro e linguaggi dell’arte

La storia della letteratura e delle arti narrative in generale è infarcita di opere di formazione, che da un lato spiegano a chi cresce come si cresce, dall’altro evocano nel pubblico ormai adulto un’epoca che non ci sarà più.

Cosa succede quando il “coming of age” ha bisogno di opere di decadimento, in questo Occidente così invecchiato e dolente? Una società anziana, che bofonchia, che ridicolizza la gioventù, che infine dimentica i propri valori e i propri errori, ripetendo questi ultimi, è un fatto culturale, e dunque politico, impossibile da ignorare.

L’esempio più famoso è la trilogia di Florian Zeller, “La Mère”, “Le Père”, “Le Fils”, la cui trasposizione cinematografica del secondo capitolo, magistralmente interpretata da Anthony Hopkins e Olivia Colman, è valsa a Zeller l’Oscar 2020 per la migliore sceneggiatura non originale.

Il percorso di Rubidori Manshaft (al secolo Roberta Dori Puddu) e Angela Dematté per “Alcune cose da mettere in ordine” inizia nel 2019, dopo aver già lavorato sul tema della memoria. Mediante una residenza artistica in tandem tra le anziane e gli anziani ospiti di una casa di riposo e giovani artiste e artisti, si inizia a dipanare il percorso biennale “Restez FIT!”. Dopo l’interruzione causa Covid, periodo di cui ricordiamo con quanto orrore hanno invaso le cronache le storie legate alle residenze per anziani, lo spettacolo ha finalmente preso vita. La produzione FIT (Festival Internazionale del Teatro) e della scena contemporanea Lugano, Officina Orsi, in coproduzione con Olinda/TeatroCucina (Milano) e il Festival Internazionale Castel dei Mondi, fa parte del secondo capitolo del festival “Il Peso della Farfalla” giunto nel 2024 alla decima edizione, un progetto possibile grazie all’associazione per le culture Punti Cospicui, nella figura della direttrice artistica Clarissa Veronico, con il contributo della Regione Puglia e del Comune di Bari. Il luogo scenico prescelto è quello dell’Auditorium Vallisa.

In scena, Roberta Bosetti, nei panni di Anna, un’artista poco più che sessantenne, anticipata da un video che la vede preannunciare un viaggio. Lo spazio scenico altro non è che la mente di Anna, in un presente in cui “Esisto ma non esisto”, un futuro che è un tavolo vuoto, che si ricongiunge con l’esperienza del passato, un luogo in cui vi sono oggetti affastellati come stratificati alla rinfusa sono i ricordi di Anna. Al centro del suo vissuto, vi sono i ricordi legati ai genitori, le loro piccole manie e il loro ménage famigliare, il modo in cui sono invecchiati. La centralità è anche una mancanza, che a livello conscio non viene vissuta come tale, quella di una maternità che poteva essere e non è stata, mentre a livello subconscio viene fuori tutta la rabbia covata verso il medico che l’ha colpevolizzata per un’interruzione consapevole. Intuiamo dal secondo video, in cui dialoga con Giacomo Toccaceli, mentre sullo sfondo si svolge la vita ne “La Residenza” di Malnate, che Anna si trova in una casa di riposo, interagendo con altri ospiti, con le badanti, con la paura che qualcuno intuisca la profondità della malattia e dunque la percepisca più fragile.

Le resta come rifugio solo l’arte, reificata nei calchi delle mani che la riportano alle persone a lei più care. Esse vivono nel gesso delle loro dita, senza “le vene come ragnatele che le tenevano aggrappate alla vita”, ma diafane, come le mani di chi muore.

Il testo, al di là delle piccole cose e delle grandi dinamiche esistenziali che ci riconducono alle esperienze di ciascuna e ciascuno con nonni, genitori, o all’incipienza di un’età che è davvero implacabile, agisce da crogiolo verso ciò che resta davvero, quando i nostri oggetti non sono più nostri, e i di noi ricordi vivono solo nelle menti altrui: non servono grandi decodifiche, se tutto ciò che desideriamo è perderci ancora nel fumo di sigaretta di un padre, nello sguardo meticoloso di una madre che riordina campioncini di profumo, o vendicarci di un ginecologo che ci ha rovinato la vita. Ciò che siamo e lasciamo noi può non essere un obbligo all’ulteriore, ma solo l’ennesimo carico di cose che qualcuno dovrà mettere in ordine, poiché noi non sappiamo né il giorno, né l’ora.

Il declino, in quanto tale, non è una dinamica che ammette un ritorno. È un “coming of age” che è un impromptu, a differenza della crescita. Tanto vale prenderne coscienza, a tutte le età.

“Il peso della farfalla” torna il 26 e il 27 settembre a Santa Teresa dei Maschi con “Via del Popolo”.

Beatrice Zippo
Foto di Lugano Arte e Cultura

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