Si avvicina lentamente, con incedere elegante …
Gianfranco Berardi entra in scena in modo ieratico e trionfale, nonostante brandisca una scopa a mo’ di scettro. Un abito scuro e stazzonato, la faccia bianca di cerone, da clown triste. Lo spirito del custode di un teatrino di provincia torna in scena ogni notte e racconta la parabola di un sogno che attraversa aspettative, delusioni, entusiasmi, slanci, inganni e sconfitte.
Il richiamo a Domenico Modugno è il tributo all’uomo del sud (di ogni sud) che, spinto dalla forza della passione, si è lanciato nell’avventura spalancando le braccia in un gesto mai osato prima, e ha provato a volare. Non tanto (e non solo) un omaggio all’artista, ma a quel fuoco che dà la forza di osare, di partire, di lanciarsi nel buio.
Essere o non essere, come un Amleto lacerato tra il desiderio di cambiare la propria vita e l’inazione.
Vedere o non vedere.
Provare a volare col rischio di cadere e spezzarsi le ali oppure rimanere fermo e morire.
Del resto, lentamente muore chi rinuncia ad inseguire un sogno, dice Neruda.
“Io provo a volare“, in scena al Teatro Abeliano nell’ambito della rassegna Luna barese, inserita nel cartellone de Le due Bari, è il racconto della vita di uno dei tanti giovani che dalla provincia partono per realizzare il sogno di diventare artisti. Si parte dal piccolo teatrino del paese, al quale ci si affaccia come ad un santuario, per scoprire fin da subito che fra quelle mura la magia ha lasciato il posto ai capricci del potere della Malarazza che svilisce, consuma e distrugge. Due vite (quella del giovane e quella del teatro) intimamente connesse: costruzione e distruzione di muri e di sogni.
La partenza, gli studi all’Accademia, la ricerca di un lavoro, i rifiuti, i compromessi, la presa di coscienza del fallimento, il ritorno al paese con la necessità di giustificarlo anche a se stesso cercando una motivazione nobile che in qualche modo mascheri o renda meno amara la sconfitta. E qui la dolorosa scoperta che anche il piccolo teatro non esiste più, masticato e sputato dai potenti di turno che lo hanno violato. Tornare ad abitarlo per smontarlo, pezzo dopo pezzo, è forse l’unico modo per restituirgli quella identità che gli era stata tolta, anche se questa restituzione comporta la sua morte definitiva.
Le due vite (dell’uomo e del teatro) si riuniscono, fino a fondersi in un unico tragico destino, l’unico che in qualche modo restituisce ad entrambi la sacra essenza che era stata perduta.
Sempre insieme morte e vita, incanto e disincanto, slancio e caduta, ali spiegate e poi raccolte mestamente.
Gianfranco Berardi è un magnifico fantasma, un saltimbanco, un clown triste. L’atmosfera rarefatta del sogno, il sussurro dei desideri del cuore, che ci racconta con una commovente delicatezza, si intreccia e si alterna con il volto livido e duro, che dice di una realtà cruda, spietata, dove nulla riesce a mitigare l’amarezza e il disincanto. Si ride ma il dramma è lì, a fare da sfondo, a colorare di sè anche i momenti di felicità. Sempre in agguato, in attesa.
Ha una spavalderia beffarda quest’uomo alto ed elegante: un’irruenza, una furiosa dolcezza che arriva dritta al cuore. Invade il palco con un corpo che vola, che cade e si rialza, in una danza a tratti fluida, a tratti quasi marionettistica. Riesce a farci sentire la sofferenza, la fame, il freddo, la fatica, ma anche il desiderio, l’entusiasmo, l’audacia.
Un sapiente gioco di luci costruito da Gabriella Casolari, che insieme a lui condivide la drammaturgia originale e la regia di questo spettacolo, nonché il percorso artistico (Compagnia Berardi Casolari), gli permette di usare la luce e il buio, con lame che tagliano la scena. Gli arrangiamenti essenziali, la voce di Davide Berardi alla chitarra e la fisarmonica di Bruno Galeone sono punto di riferimento prezioso, contrappunto, traccia e sentiero del racconto.
Poesia pura, magia semplice che arriva dritta al cuore.
Berardi mescola continuamente ironia e amarezza, in uno spettacolo ricco di emozioni ma al tempo stesso essenziale, quasi povero, estremamente vivo.
Attraversa l’oscurità e le tenebre, le sfida e le domina. E nonostante la realtà porti ad una amara consapevolezza, alla sconfitta, è bellissimo il monologo finale in cui l’inarrestabile (nonostante tutto) spinta vitale viene quasi sussurrata al pubblico ma soprattutto al proprio cuore, come se lo accarezzasse e gli dicesse di non temere, chè il sogno è vivo per sempre.
Io provo a volare.
Ogni notte.
Aspetto l’ultimo rintocco e poi parto.
Vago cieco, sospeso in quest’abisso scuro ed uniforme che mi circonda.
Prigioniero del buio, mi rifugio nel vuoto, seguendo d’istinto un minimo contrasto di luce.
Il giorno e la notte per me sono uguali:
miraggi abbaglianti, riflessi ingannatori,
esiste solo il caos e così ogni notte io provo a volare.
Spingo, cado lotto, ricomincio.
Disturbando chi sta intorno che non vuole, ha paura e mi frena nello sforzo di volare.
Imma Covino
Foto dalla pagina della Compagnia
Condivido tutto e anche di più. Grandissima prova d’attore. Grazie