L’8 settembre 1943, un armistizio già messo in pratica da qualche settimana veniva reso pubblico. Iniziava un estenuante processo di liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista che la attanagliava da vent’anni e che l’aveva trascinata dapprima nella follia della miseria per la povera gente a fronte di uno sforzo coloniale mai portato a termine, per poi scivolare nella retorica razzista e machista, e infine in un conflitto sanguinoso e rovinoso.
Per un Paese in ginocchio, era difficile immaginare un futuro, eppure la speranza di riuscire a cambiare le cose animò le forze partigiane. La pratica delle armi era ben usitata tra le giovani generazioni, sia tra le ragazze che tra i ragazzi, e formò la base della Resistenza e della ricostruzione di una nazione, che per questo non può distaccarsi da una fondante componente antifascista.
La memoria storica vive nei luoghi, impossibile che non ce ne siano, vicino alle nostre città e nelle nostre campagne. È così per Campo 65, tra Altamura e Gravina, alcuni edifici semidistrutti dal tempo in una campagna che ha l’aspetto brullo, quasi lunare, dell’Alta Murgia. Qui ha voluto tenere una delle date del cartellone “Feriae Umanistiche” l’Università di Bari, nel programma delle celebrazioni del centenario dell’Ateneo. In particolare, è il Dirium, Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica, a tenere alcuni di questi incontri in luoghi dell’archeologia non solo antica ma, come in questo caso, moderna più che mai. La data si è tenuta anche in collaborazione con Viandanti Festival, in una coincidenza di date che si è fatta forza, e numerosità, nelle persone intervenute.
La visita a cura di Domenico Bolognese e del Prof. Giuliano De Felice sfata innanzitutto un mito legato alla definizione di un campo di prigionia: il campo non è assimilabile alla funzione che durante il delirio bellico avevano i campi di concentramento, con tutto il loro repertorio di atroci strumenti di genocidio. Campo 65 era un campo di prigionia, in cui venivano dapprima rinchiusi i prigionieri alleati, in condizioni igieniche e alimentari sì precarie, ma ancora migliori di quelle in cui versavano i soldati italiani, trattati male e poi dimenticati dal Regime. Finito di costruire alla fine del Luglio 1943, il Campo ebbe questa funzione per pochi mesi, in quanto qualche settimana dopo vi fu l’armistizio, lo sbarco degli Alleati e dunque lo svuotamento della funzione e il relativo spopolamento.
La struttura fu poi destinata al ricovero delle famiglie profughe da Istria e Dalmazia, nonché dei dissidenti titini, una condizione anche questa non destinata a durare molto.
Delle strutture originarie, sono rimasti in piedi alcuni edifici comuni, le torrette di avvistamento, e tre delle decine di baracche originarie desumibili dalle foto storiche. Una gran parte delle baracche è stata ruspata nel 1988 per far posto al nuovo tracciato della Strada Statale Bari – Matera. Il recupero di queste baracche superstiti è in corso, soprattutto per preservarne i reperti delle preziose iscrizioni al loro interno.
La visita appassionante è culminata in un concerto di Maria Moramarco, Luigi Bolognese e Marcello Francesco Sette, intervallato dalle letture di lettere di prigionieri alleati a cura di Angelo Michele Di Donna. Il repertorio della canzone tradizionale e in vernacolo è esaltato dalle parole che desiderano pace, dei giovani costretti a combattere contro il proprio volere e con un obiettivo che non è mai stato davvero chiaro, tra pidocchi, pasti miseri, quando non tossici, malattie e avversità climatiche.
Le loro parole sono più potenti e ficcanti delle armi, eppure non abbiamo imparato ad ascoltarle. Se non basta il racconto di chi ha vissuto la guerra e desidera un mondo in cui la guerra non deve farla più nessuno, a credere che l’odio fa schifo e che la violenza non ha senso, forse allora davvero, dopo aver creduto di essere la specie più intelligente in quanto ha saputo adattarsi, siamo involuti nella specie più stupida, perché corre verso un’autodistruzione per puro diletto.
Beatrice Zippo