Tamara Gvozdenovic, una “Seer” mutante tra efficienza naturale e disfunzione meccanica, ipnotizza la scena della XXXIII edizione del Festival Internazionale del Teatro e della Scena contemporanea di Lugano

Si conclude il breve ma intenso viaggio della nostra redattrice Beatrice Zippo in quel di Lugano ove è stata ufficialmente invitata per recensire le performance della XXXIII edizione del ‘Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea’. (N.d.D.)

Il disclaimer sul sito e all’entrata della sala del LAC, Lugano Arte e Cultura, parla chiaro: lo spettacolo prevede l’uso di luci strobo, immagini di nudo e di suoni molto forti, saranno disponibili dei tappi per le orecchie. Per evitare di lasciare definitivamente a Lugano i cocci dell’anima ancora sparsi per strada dopo la “Medea” che ha preceduto “Seer” nel programma della XXXIII edizione del FIT Lugano, la tentazione di proteggersi le orecchie è forte. Ma alla fine resisto ad affrontare la performance senza protezioni.

E ho fatto bene. “Seer”, lo spettacolo di e con Tamara Gvozdenovic, co-ideato con Kangding Ray che cura anche le musiche dal vivo, una produzione Le Facteur in coproduzione con Tanzhaus Zürich e C12 Bruxelles e col sostegno di b12 Berlin e Octopus Agents Amsterdam è tanta, tantissima roba, un’abbondante benedizione postmoderna.

Lo spazio scenico è una matrice che misura i movimenti, prima che compaia Gvozdenovic, la tridimensionalità è data dalle luci, dal suono, dal fumo che disegna il vuoto. Gvozdenovic compare in scena indossando davanti al pubblico un body tecnico, mimando una partita a padel, uno sport che è diventato una specie di ossessione collettiva. I movimenti nella matrice spaziale avvengono in piena armonia con la musica, anche grazie ad alcuni comandi che Gvozdenovic aziona sui costumi e sui supporti scenici che utilizza, e che proprio con la musica interagiscono e determinano la sua coreografia.

Con il suo corpo così tonico e indiscutibilmente perfetto oltre ogni standard estetico, con i suoi movimenti millimetrici, eppure così articolati, ci guarda, ci sfida, ci invita a chiederle di più.

È qui che avviene la parte più bella dello spettacolo: munita di alcuni paramenti a guisa di armatura dei nostri giorni alla fibra di carbonio, parastinchi, visore e un usbergo scapolare elettrificato, Gvozdenovic si trasforma in una mutante, una specie unica di musa cronenberghiana, simile alla protagonista di “Titane” di Julie Ducourneau, pulsione di sfida verso la macchina inclusa. Questa armatura la divora e la rende invincibile, la aiuta e la fa cadere, crea una nuova bellezza in lei, mentre l’interazione con la musica si fa drammaturgia.

Gvozdenovic infine torna umana, lasciandoci con nuove risposte a interrogativi che non sapevamo di avere. Al diavolo i tappi per le orecchie, ne vorrei ancora.

L’andante di Ivan Graziani congeda da Lugano per sempre, anche se non l’avevo vista mai. Ebbene, dopo questi due giorni frenetici, pieni di emozioni e stimoli che richiederanno il tempo di essere riordinati, pur avendo anch’io a casa ho un padre fermo sulla spiaggia, al Sole e con le conchiglie, mi sento di dire:
“Lugano, arrivederci.”

Beatrice Zippo
Foto di David Letellier

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