“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K.”
Non è la prima volta che accade, di leggere il laconico passaggio de “Il Processo” di Franz Kafka, eppure ogni volta, intorno a quella frase, si ferma il tempo. Si ferma il tempo per chi la legge, per chi la pronuncia, per chi la pensa. Si ferma per Josef K., nel romanzo. Si ferma per moltissime persone, ogni giorno, il tempo in cui riceviamo una comunicazione che modifica la nostra libertà e le nostre abitudini, senza che riusciamo a capirne il perché.
Se lo chiede anche Roberto Abbiati, nello spettacolo a regia di Claudio Morganti, con Johannes Schlosser, in “Circo Kafka”. Lo spettacolo, una produzione Teatro Metastasio di Prato e Teatro Piemonte Europa, fa parte della decima edizione de “Il Peso della Farfalla”, il festival cittadino di teatro e linguaggi dell’arte realizzato dall’associazione Punti Cospicui nella persona della direttrice artistica Clarissa Veronico, con il contributo di Comune di Bari e Regione Puglia.
Il festival, tra le altre particolarità, ha quella di portare un teatro di concreta sperimentazione in luoghi insoliti, quando non inediti: è questa la volta (non la prima, invero) della chiesa di Santa Teresa dei Maschi, a Bari Vecchia, il luogo da dove partiva la processione dei Misteri della Vallisa, il Venerdì Santo, quando ero bambina. Nella mia memoria famigliare, visitare le statue prima della partenza, salutare mio nonno, portatore di Gesù con la Croce in spalla, guardare mie coetanee vestite da Madonnine ex voto sfilare sotto la statua dell’Addolorata, mentre le mamme piangevano disperate tutto il giorno in processione per le vie della città, era un appuntamento obbligato ad anni alterni.
Laddove in quegli anni vi erano le statue del Calvario e della culla del Cristo morto, giace la scenografia di “Circo Kafka”, un piccolo capolavoro di attrezzismo steampunk, a metà, manco a farlo apposta, tra il letto nella camera di un morente, e un calvario, su cui Abbiati, in uno dei travestimenti che adotta durante lo spettacolo, si erge a giudice.
Le interazioni tra Abbiati e Schlosser sono innumerevoli, nella musica, nei rumori, nelle luci, nei movimenti scenici anche e soprattutto degli oggetti che formano la Wunderkammer in cui si svolge l’azione.
Il circo è anzitutto nel fatto che nello spettacolo non si parla praticamente per niente, ma ci sono solo quadretti che, come numeri del circo, si susseguono, senza una vera origine, con un epilogo che non si intravede, ma che alla fine accadrà.
Si torna bambine e bambini, seppur con la disillusione che ha sopperito l’incanto, nel guardare le infinite trasformazioni di Abbiati, che raccontano tutti i nonsense del processo a Josef K.
Il gusto rende le scene come fossero vignette, la qual cosa tradisce una delle nature di Abbiati: quella di disegnatore, che ha permeato anche la sua figura, stretta e segnata, che pare tracciata da una matita.
Anche la seconda, inaspettata, parte dello spettacolo, ricorda un “Easter Egg”, come alla fine dei film della Marvel: Abbiati racconta alcuni deliziosi aneddoti che parlano del suo rapporto con “Il Processo”, e della vita di Kafka in generale.
In particolare, racconta di quanto in realtà Kafka abbia scoperto che il suo Processo facesse ridere, nell’assurdità di alcuni suoi passaggi, ma che nessuna e nessuno, ad oggi, se la senta più di ridere, anche in occasione di spettacoli come questo, il cui richiamo circense caricaturizza gli elementi più grotteschi della vicenda.
Non ce la sentiamo di ridere. Spesso accade che un Processo kafkiano, che sia strettamente legato a una vicenda giudiziaria, o alle cose della vita come lutti e naufragi delle relazioni, piuttosto faccia paura.
Spettacoli come questo sono terapeutici, ci aiutano a rendere le assurdità come brutti sogni che vengono e vanno, al suono di una cornamusa, e che il tempo, finalmente, torni a scorrere.
Beatrice Zippo
Foto di Lucia Baldini