Amleto fatto a pezzi e restituito intatto nello spirito: Michele Sinisi al Teatro Bravò di Bari riscrive la tragedia shakespeariana partendo dalla fine della storia, quando tutto è compiuto ma ancora nulla è risolto

Quando si smonta un capolavoro, si corre il rischio di restituire un esercizio di stile o di autocompiacimento, oppure una rilettura forzata e narcisistica. Ne derivano pièce di fronte alle quali si oscilla dalla fascinazione estatica al rifiuto sdegnato o (nel mezzo) al silenzio perplesso nel dubbio di non aver colto, capito nel modo giusto.

Già, ma qual è il modo giusto?

Premio della critica nel 2016 (e più volte finalista), segnalato in più di un’occasione per il Premio Ubu, Michele Sinisi è attore e regista decisamente unico e originale, voce e corpo di un teatro (e di una cinematografia, con “Palazzina LAF” di Michele Riondino su tutti) che offre uno sguardo altro, una lettura che scardina e scava. Un uomo in perenne ricerca, mai sazio e mai scontato.

Sul palcoscenico del Teatro Bravò di Bari, è andato in scena il suo Amleto, con i costumi di Luigi Spezzacatene, una produzione di Elsinor Centro di Produzione Teatrale/Progetto Farsa, in coproduzione con Festival Castel dei Mondi.

Mi sono avvicinata a questa riscrittura potentemente visionaria in punta di piedi, in silenzio e, lo confesso, con un po’ di timore, fidandomi di quello che di lui avevo sentito e visto in passato. Mi sono lasciata prendere per mano perché mi conducesse attraverso le sue strade. Sapevo che occorreva essere aperti e duttili, e ho cercato di adeguare il ritmo del cuore al cuore spaesato, confuso, feroce di questo Amleto che si ritrova solo in una stanza ad affrontare le sue ossessioni, ripiegato su se stesso ma anche alla disperata ricerca di un ordine, per ribadire e risolvere, se possibile, i rapporti e le dinamiche con questi assenti che sono cosi prepotentemente presenti e ingombranti.

Tutto è compiuto, tutto è già avvenuto, ma resta il bisogno di riprendere le fila, come se ripercorrere gli eventi potesse consentire di pronunciare l’ultima parola, quella definitiva, quella che mette un punto alle vicende e al tormento dell’anima. Come un puparo, questo Amleto che urla e sussurra, muove i personaggi, li pesca uno ad uno come da un pozzo, ne richiama l’essenza, ne ricorda il ruolo all’interno della vicenda, li dirige. I protagonisti della tragedia sono tutti sul palco vuoto, nella voce di Sinisi che entra ed esce da ognuno di loro, che ne commenta gesti e umori. Polonio, Re Claudio, Ofelia, Laerte, Gertrude, l’attore girovago. Sono nella memoria rabbiosa e nelle sedie bianche e vuote con un nome scritto sul dorso, inizialmente disposte in fila e poi scompaginate, spostate, gettate a terra, aperte e chiuse con violenza, rumorosamente, come violenti, disordinati e furenti sono i rapporti che lo hanno sconvolto. Su queste sedie, una alla volta, scorrerà il sangue di suo padre, acqua limpida in un vaso pieno di fiori. E i fiori saranno sigillo definitivo per chi non ha più voce, per queste presenze che sono tornate ad essere assenza.

Amleto parla di loro ma parla anche a loro e dice la sua sofferenza, apre il cuore dopo la vendetta, la furia, quasi a volersi confrontare per poter uscire da quella stanza in cui è rimasto chiuso, assillato da ricordi che non riesce a sostenere e dei quali non riesce a liberarsi.

Amleto si rivolge a noi ma parla a se stesso, al sè che ancora è irrisolto, alla solitudine che lo abita e che dilaga in lui dopo che tutti sono morti. In questo terribile silenzio, la sua voce è rabbiosa, violenta, feroce, ma spesso si spegne in un sussurro, in un soliloquio disperato. Anche il celebre monologo è dolente, di una bellezza malinconica, flusso di pensieri di un uomo che si cerca nella parola che crea il pensiero.

Un coro notturno di grilli e la luce della luna aprono e chiudono idealmente il sipario. È musica semplice, rumore di quiete all’inizio e alla fine di un racconto concitato. Accompagnano il risveglio di Amleto e suggellano il suo riposo sul cuscino rosso che occupava e distingueva la sedia di Re Claudio.

Quando le luci si spengono, è forte il desiderio di restare in silenzio per non sciupare quell’emozione, per ripercorrere i gesti, la potentissima mimica, il gioco incredibile della voce, la capacità di raccontare e commentare, di entrare e uscire dai personaggi senza mai confonderci, coniugando il turbinio interiore di Amleto, il suo dire frenetico e delirante, con una efficacia narrativa che, dopo aver smontato il testo shakespeariano, restituisce alla fine un personaggio integro e autentico nello spirito, quasi arricchito nel suo significato.

Ecco, ci sono riletture narcisistiche e autocelebrative. E poi ci sono viaggi senza dubbio rischiosi, che però esplorano mondi nascosti o guardano le cose da un punto di vista diverso.
Bisogna solo lasciarsi prendere per mano da quest’uomo dal volto coperto dal cerone che un po’ ricorda un clown triste, dalla sua malinconia struggente e furiosa.
Bisogna accettare di partire al buio, con la sola luce della luna e con la musica malinconica del canto dei grilli.
Bisogna fidarsi di Michele Sinisi, cercatore inquieto e testardo. Ne vale davvero la pena.

Imma Covino
Foto dal web

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