Quando il sogno diventa realtà: il Trio composto da Christian McBride, Benny Green e Gregory Hutchinson lascia senza fiato il pubblico del Teatro Massimo di Pescara

Il secondo appuntamento dell’edizione n°24 di “Jazz in Fall”, che si svolge all’interno della Stagione musicale della Società del Teatro e della Musica di Pescara, con la Direzione Artistica di Lucio Fumo, è stato dedicato alla grande figura del contrabbassista Ray Brown.

A rendergli omaggio, sul palco del Teatro Massimo un trio a dir poco stellare, guidato dal contrabbassista Christian McBride, dal pianista Benny Green e da Gregory Hutchinson alla batteria. Tre musicisti americani di un’età compresa tra i 52 anni di McBride e i 61 di Benny Green. Non giovanissimi, ma che hanno avuto il privilegio di suonare con tantissimi mostri sacri del jazz. Giusto per restare sull’argomento “Ray Brown”, tutti e tre hanno avuto il privilegio di suonare (ed incidere) insieme al grande contrabbassista. E’ doveroso ricordare che lo stesso McBride, insieme a Ray Brown e a John Clayton (terzo contrabbassita) avevano formato, tra il 1996 ed il 2001, un trio denominato Superbass, che ha anche prodotto due incisioni. Ma anche Benny Green e Gregory Hutchinson per anni hanno formato il trio stabile di Ray Brown.

Ray Brown, classe 1926, riveste un posto di tutto rilievo nella storia del jazz.Considerato dalla critica una pietra miliare, viene ricordato per la sua potente sonorità e per la capacità di adattarsi a circostanze diverse grazie alla sua grande familiarità con il linguaggio del bebop. Dopo il conseguimento del diploma, appena ventenne, dalla città natale di Pittsburg si trasferì a New York, entrando in contatto con i pionieri del jazz come Gillespie, John Lewis, Charlie Parker, Art Tatum, Milton Jackson, Bud Powell e tantissimi altri.

Interrotto il sodalizio con Gillespie nel 1947, Brown formò un proprio trio che costituì il gruppo di supporto per le esibizioni di Ella Fitzgerald, che egli sposò l’anno seguente e da cui avrebbe divorziato nel 1952. Chiusasi nel 1951 l’esperienza col proprio trio, Brown si unì a Oscar Peterson con cui suonò in trio fino al 1966, anche se in questi quindici anni ebbe modo di esibirsi con una moltitudine di altri artisti jazz.

Dopo aver lasciato il trio di Peterson, si trasferì a Los Angeles, divenendo il manager di artisti jazz fra cui Quincy Jones e Milt Jackson col rinato Modern Jazz Quartet. Nella città californiana lavorò in studio e nel 1974 formò il gruppo “L.A. Four”, impegnandosi al contempo a far emergere artisti semisconosciuti come la cantante Ernestine Anderson, o dimenticati come Gene Harris. Proprio quest’ultimo, al pianoforte, fu un suo partner nei trii con cui negli anni ottanta e novanta il contrabbassista si esibì in concerto e registrò in studio. Morì nel sonno nel 2002, durante un riposo pomeridiano qualche ora prima di un concerto che avrebbe dovuto tenere a Indianapolis.

E’ in questo contesto che dobbiamo collocare il concerto del 4 novembre. Tutti e tre i musicisti debbono molto a questa figura portante del jazz americano.

Christian McBride (Filadelfia, 1972) è considerato un virtuoso del suo strumento, è tra i più prolifici musicisti della generazione atuale, avendo all’attivo circa 300 registrazioni come sideman prima dei suoi 40 anni. Nove volte vincitore di Grammy Award (con 16 nomination): tre suoi album con la Big Band (“The good feeling” nel 2012, “Bringin’ it” nel 2017 e “For Jimmy, Wes and Oliver” nel 2020), uno per il miglior assolo (Cherokee nell’album McBride trio live at the Village Vanguard mel 2016), e in partecipazione con altri musicisti come McCoy Tyner, McLauglin, Chick Corea (l’album Trilogy 2 , registrato dal vivo, è un album intestato a Corea, McBride e Blade) e l’ultimo nel 2023 per la coproduzione del CD di Nicole Zuraitis (best jazz vocal album). A vederlo suonare dal vivo, ascoltando il suono nitido e corposo del suo strumento, non ci si riesce a rendere conto della facilità con cui suona il suo strumento, diventandone un tutt’uno. Figlio d’arte, inizia una collaborazione stabile con Bobby Whatson già a 17 anni. Collaborazione che durerà circa cinque anni, e che gli permetterà di conoscere e collaborare con tante leggende del jazz come Freddie Hubbard, Benny Golson, Milt Jackson, J.J. Johnson e Hank Jones. Importante la collaborazione con Joshua Redman (parliamo di più di vent’anni fa), in un quartetto formato da Brad Mehldau e Brian Blade. Tutti musicisti giovani, pressochè sconosciuti, che hanno fatto tutti e quattro una carriera personale impressionante. Gruppo straordinario che poco prima del Covid si è ricostituito per alcune tournèe, e che hanno toccato anche diverse nostre città. Un quartetto da sogno. La sua versatilità musicale gli ha consentito di poter spaziare in molte situazioni anche al di fuori del jazz ed è per questo stato richiesto anche da cantanti del calibro di James Brown e Sting. Da marzo 2016, McBride è direttore artistico del Newport Jazz Festival, che dal 1954 si tiene annualmente ad agosto nell’esclusiva località balneare statunitense di Newport (Rhode Island), nei pressi di New York.

Il pianista Benny Green , classe 1963, per il suo stile, è stato paragonato a Bud Powell e Oscar Peterson, che sono stati sempre indicati come suoi punti di riferimento. Nel 1998 con Oscar Peterson incide un disco (due pianoforti a confronto) con l’accompagnamento di Ray Brown e Gregory Hutchinson. Benny Green è nato a New York City e cresciuto a Berkeley, in California. Ha iniziato a suonare il piano a sette anni, indirizzato da suo padre, sassofonista tenore jazz. Ha frequentato la Berkeley High School. Dopo il liceo, ha trascorso alcuni anni a San Francisco, ma per lui il successo è arrivato nel momento in cui ha fatto ritorno a New York. Green, oltre all’attività a suo nome, spesso in trio, si unì alla band di Betty Carter nell’aprile del 1983 e dal 1991, E’ stato, alla fine degli anni ‘80, uno degli ultimi pianisti dei Jazz Messengers di Art Blakey (alla giovane età di venticinque anni). E’ tra i musicisti più richiesti in sala d’incisione, instancabile, con una voglia di suonare, una tecnica ed un’energia impressionante.

Gregory Hutchinson, (Brooklin, 1970) è figlio d’arte. Il padre, anche lui batterista, ha provveduto ad instradarlo fin dall’infanzia. Ha studiato con Marvin “Smitty” Smith e Kenny Washington alla fine degli anni ’80 e ha iniziato la sua carriera suonando con Red Rodney nel 1989-1990. Anche per lui, fin da giovanissimo, le collaborazioni sono smisurate: Betty Carter , Aaron Goldberg Trio, Joe Henderson, Dianne Reeves, Roy Hargrove, Ray Brown, Eric Reed, Marcus Printup, Joshua Redman, Frank Wess, Steve Wilson , Johnny Griffin, Peter Bernstein,  Jimmy Smith, Arturo Sandoval, John Patitucci , Joey Calderrazo, Michael Brecker e tantissimi altri. È anche un artista docente presso l’Open Studio Jazz. Ancora oggi esprime la freschezza dell’invenzione che è stata una sua evidente caratteristica fin dall’inizio, equilibrata però con la maturità acquisita. Parlando di sé, dice: “Tra le mie influenze principali c’è ‘Philly’ Joe Jones, perché ha incorporato tutti gli elementi della sua vita nella sua musica. Era molto, molto elegante”. Un’altra sua fonte d’ispirazione è Charlie Parker. Che la batteria canti, questo è il desiderio e l’obiettivo di Greg Hutchinson, così come cantava il Sax di Charlie Parker.

Come già detto, il concerto è stato incentrato sulla figura di Ray Brown, proponendo una serie di brani classici del epertorio jazz degli anni ‘60, come “Ja-Da”, Mileston di Miles Davis, Li’l darlin’ di Neal Hefty o Tin Tin Deo di Dizzy Gillespie. Impossibile riconoscere al solo McBride la figura di leader del gruppo. Tutti e tre hanno avuto spazio per presentare i brani e raccontare aneddoti. Davvero un rapporto paritario tra i tre.

A metà del concerto i tre musicisti hanno voluto rendere omaggio al grande Quincy Jones, scomparso il giorno prima. Tutti sappiamo il ruolo trasversale che ha rivestito nella sua lunga carriera, sia in ambito della musica jazz che in ambienti più popolari. Quincy Jones è stato il produttore dei primi dischi da solista di Michael Jackson con la sua musica funky. In suo onore è stato eseguito, per la goduria dei presenti, il brano “It don’t mean a thing (If it ain’t got that swing)” (brano scritto da Duke Ellington nel 1931), ma con un arrangiamento funky che sarebbe senz’altro piaciuto al grande arrangiatore e direttore d’orchestra scomparso.

Un plauso a chi si spende per l’organizzare eventi di tale spessore, e che ha visto la platea Teatro Massimo gremita all’inverosimile, principalmente di giovani. E questo non è un aspetto secondario, ma con artisti di questo calibro possiamo aspettarci di tutto.

Gaetano de Gennaro
Foto di Gaetano de Gennaro

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