Si intitola “Pietre di scarto” di Stefano Di Marco a cura di Vincenzo Velati, la mostra allestita fino al 24 novembre al primo piano del palazzo in cui ha sede l’Artoteca Alliance nella città vecchia, a pochi passi da Piazza Ferrarese, quattordici fotografie di grande formato in esposizione che hanno richiamato l’interesse di moltissimi partecipanti, fra questi artisti e fotografi stimati.
Sala gremita già prima dell’inaugurazione, immediato il consenso da parte dei visitatori.
Già nel titolo “Pietre di scarto” si individua la volontà dell’autore di esplorare un universo anomalo, una cava, e proprio questo solleva grandissima curiosità soprattutto circa la dinamica che ha indotto l’autore verso questa scelta.
Dapprima il visitatore suppone che lo scopo degli scatti abbia un fine documentaristico, ma davanti alle immagini, si rende conto di aver peccato di superficialità.
Inaspettatamente ci si sente investiti da una sensazione di totale pacatezza, come se al di là di quello che realmente è rappresentato, avesse contato “quando” l’immagine era stata catturata, e questo chiude il cerchio alla curiosità iniziale.
L’autore si ferma dove difficilmente qualcuno avrebbe pensato di fermarsi e lo scatto arriva quando il rumore assordante dei mezzi è cessato, quando il ritmo frenetico dei lavoratori è terminato, quando il sole si è celato dietro le nubi, quando niente e nessuno avrebbe potuto contaminare l’attenzione per quel luogo, che “in quel momento”, non è più visto attraverso la sua reale funzionalità, ma attraverso quello che riesce a trasmettere.
Sembrerebbe che questa bellezza sia stata ricavata grazie a quel tempo fermo che ha consentito all’autore di addentrarsi in quel posto (ma avrebbe potuto essere qualsiasi altro), lentamente e in silenzio con la stessa reverenza e attenzione che si ha verso qualcosa di prezioso.
Davanti a queste immagini si avverte un profondo senso di nostalgia, inteso come impossibilità del ritorno, come qualcosa che è stato e non sarà più.
Gli scatti non sono in bianco e nero, ma il colore è pressoché assente e questo ha rafforzato in me, ancor di più l’impressione di un ricordo, di un tempo passato.
Come fosse lo scenario di un canto dantesco, tutto sembra avvolto in un limbo arcaico senza tempo e senza storia, tale è il lirismo che sprigiona.
Uno sparuto alberello e un cane pelandrone.
Alte pareti rocciose protette dal loro manto naturale, altre violate dall’uomo, che in nessuno scatto compare. Poi un costone nella sua composizione interna, formata da fitte sfumature e tenui rilievi dei minerali, a seguito del processo di estrazione. Quindi una rupe riflessa in una grande gora fangosa e un’altra dilatata in larghezza come la linea di un’onda sinuosa. E ancora cumuli di pietrisco grezzo e altri di sabbia, a modellare un paesaggio dunoso.
Tracce marcano, sul selciato, il passaggio di maestose macchine che hanno lavorato fin poco prima, e che ora – ferme – sono come dinosauri dormienti.
“Un ammasso di roccia cessa di essere mucchio nel momento in cui un solo uomo la contempla immaginandola, al suo interno, come una cattedrale” (Antoine de Saint-Exupéry)
Qui la roccia si spoglia della sua identità materica e si veste di un’aura trascinante che conduce in uno spazio sospeso in cui è salvifico trovarci rifugio.
Sembra quindi di aver compiuto un viaggio in un altro tempo e in un’altra dimensione, lontano dalla frenesia della nostra realtà che non trova tempo di fermarsi e di godere della bellezza delle infinite piccole cose che ci circondano.
Si prova grande entusiasmo verso la fotografia.
La macchina fotografica è come una scatola magica che riesce a fermare l’immagine: è il potere della fotografia, ma ancor di più di quel fotografo che riuscendo in un’immagine a trovarne il valore la fa vibrare, rendendola così opera d’arte.
Cecilia Ranieri
Foto di Sergio Scagliola