L’arte sa essere innanzitutto irriverenza e voglia di prendersi in giro da sola, mediante esercizi meta artistici trova una maniera per comunicare, nuova, valida. Soprattutto, bella.
Il BiG – Bari International Gender festival è il mese di cinema e arti performative su differenze di genere, identità ed orientamenti sessuali della città di Bari. Giunto alla sua decima edizione, il festival, tra le sue peculiarità, ha quella di restituire al pubblico spazi performativi, normalmente negletti o pensati per altro, dando loro nuova luce e costruzione, un modo più pieno di renderci felici, non dimenticando mai la rivendicazione del corpo politico e dei diritti civili e sociali che da esso e su esso discendono. Il programma, codiretto da Tita Tummillo e Miki Gorizia, è promosso e organizzato dalla Cooperativa sociale AL.I.C.E. (Area Arti Espressive), sostenuto dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), Regione Puglia, PACT Puglia Culture a valere sul Fondo Speciale Cultura e Patrimonio Culturale L.R. 40/2016 art. 15 comma 3, Puglia Culture, Comune di Bari, dall’Ufficio Tecnico – Tavolo Tecnico LGBTQI del Comune di Bari, oltreché con la collaborazione con decine di interlocutori artistici, istituzionali e non solo.
Lo spazio è quello strappato all’oblio dei decenni, ossia la Caserma Rossani, ora Parco, presto un vero e proprio complesso di spazi che oltre alla Casa della Partecipazione prevederà la nuova sede dell’Accademia di Belle Arti e una Biblioteca. In quest’ultima, prima che arrivino i libri, si tiene la performance dei Sine Qua Non Art, “O Futuro é ancestral”. Il concept è di Christophe Béranger e Jonathan Pranlas-Descours, in scena Christophe Béranger, Jonathan Pranlas-Descours, Felipe Vian e Fabio Motta. Tecnicamente si tratta di una specie di mostra di corpi viventi e danzanti, organizzati come se la sala fosse uno spazio espositivo che si sta ancora preparando per il vernissage, con il leggero pattern musicale che campiona i cori di Pastime Paradise di Stevie Wonder.
Ed è proprio un lussureggiante paradiso, quello in cui i danzatori sono ricoperti da strass colorati, che a noi animali da Pride sono molto familiari, a coprirne le nude membra e i volti come se fossero tute zentai, un’estetica che dal teschio diamantato “For the love of God” di Damien Hirst passa per l’estetica delle minaudière più preziose di Alexander McQueen e arriva al Major Tom ormai istoriato nella sua tuta nel videoclip di “Blackstar” di David Bowie.
Essi giacciono su piedistalli in mattoni forati di argilla. Di lì prende le mosse la loro danza, strisciando tra il pubblico e evolvendosi in lente acrobazie spostando i mattoni come dei novelli Sisifo, verso nuovi piedistalli e nuovi equilibri, ma così è la vita. Qui parte la parte commovente dello spettacolo: i piedi dei performer vengono legati ai mattoni con una tecnica shibari, quella che usa corde e nodi per legare dolore e piacere. I mattoni diventano delle specie di zoccoli pesanti, che ostacolano la danza e stimolano una specie di ordalia della pietra tra di loro: volano i calcinacci dell’argilla, gli strass e il sudore scintillano sul pavimento. È capendo che solo facendosi mutua forza, che ci si libera assieme, camminando a passo unito.
E siamo unite e uniti anche noi, nel segno dei luccicanti strass colorati. E anche un po’ più felici.
Beatrice Zippo
Foto di Fabiano Lauciello