All’Auditorium Vallisa di Bari, nell’ambito della Stagione “Teatro Studio 2024-25” della Compagnia Diaghilev, è andato in scena ”Old fools”, nato dalla penna dell’autore britannico Tristan Bernays, diretto da Silvio Peroni, con Marianna De Pinto e Marco Grossi, coprodotto da Compagnia Malalingua e Festival Trame Contemporanee con le scene di Riccardo Mastrapasqua e i costumi di Monica De Giuseppe.
E’ una storia come tante, di due persone, un uomo e una donna che l’autore chiama Tom e Viv, che si incontrano, si conoscono, si cimentano, come sempre accade in questi casi, nelle prime schermaglie amorose, si innamorano e decidono di camminare insieme. Poi la convivenza, l’arrivo di una figlia con i suoi problemi di cuore, le prime difficoltà quando Tom, musicista, vuole trasferirsi in un’altra città per seguire un’importante opportunità professionale, il trasloco, le prime difficoltà economiche, le insoddisfazioni e il risentimento di lei, il cui lavoro è quello che “mette da mangiare in tavola”, consentendo a lui di coltivare le sue velleità di artista, la frustrazione di lui e, quasi classicamente, il conseguente tradimento da parte di Tom.
Un continuo déjà vu, si potrebbe dire, una storia in cui, in fondo, a tratti, chiunque di noi, in tutto o in parte, potrebbe riconoscersi. La storia si dipana su una scena assolutamente vuota e priva di qualsiasi oggetto, in una atmosfera chiaroscurale, in cui le luci si alternano alle ombre, associate, queste, a lampi improvvisi e dissonanze sonore fastidiose, a ricordarci che la vita, spesso, ci pone di fronte ad eventi inaspettati, e che, dal passare attraverso di essi, non possiamo esimerci.
Forse perché ho sempre guardato alla vita come ad un susseguirsi di eventi, alcuni felici, altri difficili, talvolta drammatici, che, tracciano nella nostra mente il percorso dei nostri “ricordi” che rappresentano, in definitiva, la “storia” di ognuno di noi, forse perché ho sempre identificato la ricchezza di una vita proprio nella molteplicità dei suoi ricordi, come se si vivesse anche per “ricordare”, questa pièce mi ha particolarmente turbata.
Cosa accade quando anni e anni di questi ricordi, pian piano ed inesorabilmente, scompaiono da una mente, quando quella luce che Claudio De Robertis fa arrivare diretta e cattiva nella prima scena, come un raggio laser sulla testa di Tom, inserendolo, dopo poco, in un cerchio di luce vorticoso, lo lascia inerme nella sua immobilità assoluta e nel silenzio?
Cosa accade quando l’Alzheimer interviene a cancellare tutti i ricordi, non già dell’intera coppia che quella storia ha scritto insieme, ma solo di uno dei due? Accade che uno dei due regredisce ad un livello infantile (a forte impatto la scena in cui Tom si urina addosso e accanto a lui c’è una donna, impersonata sempre dalla intensissima Marianna De Pinto, che, nelle sembianze di sua madre, lo rimprovera duramente: un ricordo appunto, ma, che in fondo, ci riporta tragicamente alla inesorabile regressione alla prima infanzia che questa malattia della mente così perversa porta con sé: Tom è il bambino rimproverato da sua madre o è l’adulto che non sa più controllare gli sfinteri e fa esasperare Viv?)
La storia, come si è detto, è tutto sommato scontata, forse peccando di una certa incapacità di scavare nella inevitabile complessità dei sentimenti dei protagonisti, ma la potenza narrativa dell’autore e l’originalità dell’opera è tutta nel susseguirsi continuo di flash-back, seguiti da potenti sbalzi temporali in avanti, di scene ed eventi in cui una parola o una frase di evidente significato gioioso, viene poi ripresa identica nella scena successiva con tutt’altro significato e senza alcun preavviso, a portare lo sbigottimento, l’angoscia, il dolore. Lo spettacolo che ne risulta è struggente, per l’evidente potere di immedesimazione dei due protagonisti nei personaggi interpretati, sui quali si regge magistralmente l’intero tempo del racconto, e sulla immedesimazione che gli stessi attori permettono a noi. Non è possibile restare indifferenti allo sgretolarsi di due vite che procedevano all’unisono, pur nelle umane fragilità e debolezze di tutte le vite, non è possibile non essere toccati dal senso di estrema solitudine di Viv, quando racconta della loro figlia ormai divenuta madre e dei nipotini ad un uomo che esiste ormai ad uno stato solo vegetativo, fatto di automatismi, necessità meramente biologiche, quando non di atti di aggressività dettati da una mente che ha smesso inesorabilmente di funzionare.
In scena, l’autore ha portato semplicemente una delle nostre angosce più profonde: la perdita della nostra identità, poiché abbiamo perso i nostri ricordi, proprio quelli che costruiscono giorno dopo giorno la nostra storia, e chi rimane è costretto a fare i conti con qualcuno che è solo un simulacro di quella persona che avevamo scelto per starci accanto tutta la vita, gioendoci insieme, amandola, comprendendola e anche perdonandola. E’ la storia di un uomo ed una donna condannati entrambi ad un isolamento doloroso, che, se per Tom è biologicamente inevitabile, per Viv è la punizione per il resto dei suoi giorni a cercare negli occhi del suo uomo quei ricordi che non esisteranno mai più.
Raffaella Cavallone
Foto dalla pagina Facebook della Compagnia