Sembra che G. K. Chesterton abbia detto: “Le fiabe non dicono ai bambini che esistono i draghi: i bambini lo sanno già che esistono. Le fiabe dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti“.
Il potere creatore del linguaggio.
Qualche giorno fa, aggirandomi tra gli scaffali polverosi di una libreria dell’usato, luoghi sacri come le chiese per me, ho avuto la netta sensazione, quasi fisica, di aver tra le mani un libro che già dal titolo (La manomissione delle parole), rivelava una ambizione forte e decisa, tanto da scommettere su se stesso incurante del mio atto di fede. Mi fido, lo compro!
Diciamo la verità, quando ho alzato gli occhi sul nome dell’autore (Gianrico Carofiglio), mi è sembrato quasi di “sparare sulla Croce Rossa” ripensando al mio “temerario” atto di fede di poco prima, ma tant’è, a volte si prova una certa sottile soddisfazione anche a vincere facile.
Torniamo a noi.
Libro in mano, direzione cassa e poi a casa di filato.
Lo so, suona alquanto puerile, nella sua accezione di fanciullesco e dotato di ingenuo ottimismo provare questa sensazione di urgenza, ma a mia parziale discolpa posso dire che non mi capita spesso … o forse sì con i libri? È quella strisciante sensazione, quasi una promessa, l’intuizione di aver trovato una piccola, piccolissima pepita. E poi, una prima edizione! E’ mania lo so bene. Non posso credere non vi sia mai capitato.
Comunque, appena a casa (tecnicamente già sulle scale avevo sbirciato alcune pagine, indice in primis, ma in modo sobrio e dignitoso) dicevo appena a casa mi sono sentita autorizzata ad iniziare il viaggio. Maratona tutta d’un fiato. Non voglio vantarmi dicendo anche record (in fondo erano solo 150 pagine) che non sta mai bene. Certo, a volte, vivere sola ha i suoi vantaggi, bisogna ammetterlo.
L’idea cardine del libro ruota attorno al ruolo delle parole nella nostra società e al loro pericoloso svilimento.
Parola come creatrice di mondi reali, mentali, etici, morali e oggi attaccata nel tentativo di svuotarla di senso perché proprio da qui si parte per creare una “nuova” dittatura. Non c’è bisogno di avere i militari al governo o i carri armati nelle piazze, basta anestetizzare le persone e far credere loro che la “fuga dalla libertà” è appagante, sicura, rilassante. L’aperitivo come nuovo obiettivo. La parola invece è politica. Può cambiare il mondo. “Poche parole, poche idee“ credo sia un detto popolare o, almeno, io lo sento fin da bambina. Certo detto da Zagrebelsky suona meglio: “Il numero di parole conosciute è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’ uguaglianza delle possibilità “.
Capitolo II, partiamo bene.
Carofiglio parla della correlazione tra ricchezza di linguaggio e possibilità sociali, tradotto: democrazia. Quando non si possiede la capacità di nominare le cose e le emozioni, non si detiene il controllo sulla realtà e su se stessi. Wittgenstein affermava: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Dunque, se la ricchezza di parole è una condizione necessaria al dominio sulla realtà, il linguaggio non può che essere uno strumento di potere politico. Conseguenza: la scuola è un diritto, un dovere, non una scelta né un’opzione.
Procedo entusiasta verso il prossimo capitolo.
Le parole sono atti. Infatti essendo creatrici di mondi e cose, generano effetti e, guarda un po’, responsabilità. Carofiglio dirige l’attenzione sul pericolo inquietante di un asservimento, di una conversione del linguaggio all’ideologia dominante. La Storia insegna e non dobbiamo nemmeno fare lo sforzo di retrocedere con la memoria fino alla Seconda Guerra Mondiale. A questo punto mi aspetto la citazione di Orwell e, infatti, puntuale arriva. Preveggente o semplicemente lucido Orwell, in 1984 suggerisce la creazione della Neolingua. Semplificazione progressiva della lingua e dei concetti , “rimbambimento“ cioè regressione allo stato infantile dei messaggi – slogan, uso di termini che suscitano paura o ansia, sono artifici rispondenti a scelte politiche precise e si rivelano l’anticamera del monopensiero. Non si sente la necessità di elaborare nuovi termini per spiegare nuovi concetti ed emozioni, si “rubano” gli esistenti svuotandoli di significato, uccidendo loro l’anima.
Ogni allusione è decisamente voluta. Cambiare i significati o confonderli, abusare delle parole fondanti la società per trasformare la stessa. Semplice, lineare, efficace. Nessuno spargimento di sangue. Esempio accademico: “assoluzione perché il reato non sussiste” e “prescrizione per decorrenza dei termini” non sono sinonimi, anche se il risultato è lo stesso e non vai in prigione! Però nel primo caso sei innocente, nel secondo sei maledettamente “fortunato”.
A questo punto inizia la parte specifica: le parole chiave a cui non possiamo rinunciare perché fondative del nostro lessico civile e, per cui bisogna combattere. Vergogna, Giustizia, Ribellione, Bellezza e, come dice l’autore, la parola che esprime la più umana, pericolosa, nobile ed eroica tra le dimensioni umane: Scelta. Ho una personale passione infantile per la parola Ribellione, ma devo ammettere che in questo caso la parola che ho trovato più affascinante ed intrigante per le suggestioni che mi ha suscitato è stata Vergogna. Sublime che il suo contrario sia Dignità. In questo periodo dovrebbe piovere dal cielo in abbondanza come neve. La vergogna nasce dalla consapevolezza intima, dinanzi a se stessi prima che agli altri, di aver violato un patto, un principio etico, qualcosa che aveva in sé un inspiegabile sacralità. È un’emozione adulta, presuppone la capacità di giudicare se stessi senza menzogne e, per questo, apre la porta alla speranza di migliorarsi. Forse è il sentimento più intimo e prossimo alla propria essenza. Non ci sono sconti. Mio padre direbbe “non ci sono più gelati”, ma questa è un’altra lunga storia. Non è casuale che il termine sia intransitivo; Non si può “vergognare“ qualcuno, ma solo “vergognarsi“. Ipotesi: esercizio da rispolverare? Quando poi diventa un sentimento allargato, collettivo, sociale si parla di “vergogna del mondo” ed è quella consapevolezza adulta di non aver fatto abbastanza, di aver bivaccato nella “zona grigia”, mentre la vergogna – grillo parlante ti avrebbe spronato a fare di meglio, ad essere migliore.
In questi anni sembra che abbiamo ucciso il grillo. È uno specchio morale: tu lo sai e non si sfugge.
Carofiglio ci esorta a ridarle anche valore politico ricordando la Costituzione (art.54) affiancata a concetti come dignità e responsabilità. È in fondo un sintomo di malessere con speranza di guarigione. “La capacità di provare vergogna decade con la decadenza della civilizzazione” e, parafrasandolo l’autore, se un padre esorta la figlia “appena” maggiorenne ad andar fiera della frequentazione con un anziano uomo politico, se a urlare “vergogna!” sono coloro che dovrebbero provarla cioè corruttori, truffatori o politici impresentabili, non sentite esplodere l’orticaria?
Capitolo che vale l’intero libro. Standing ovation!
Carofiglio definisce questo libro “un gioco di sconfinamenti”, un’antologia anarchica, una ricerca di senso attraverso le parole di altri, da Hanna Arendt a don Milani, da Aristotele a Bob Dylan, da Goethe a Gramsci e Primo Levi. Se di antologia anarchica si vuol parlare, allora recuperiamo il significato più puro e nobile della parola Anarchia: Libertà e Responsabilità.
Manuela Composti