“Fra la Via Emilia e il West”: quando Francesco Guccini fece la storia in Piazza Maggiore a Bologna

Era il 14 giugno 1984 quando Francesco Guccini radunò 150.000 persone in Piazza Maggiore a Bologna. Un evento straordinario, il film-concerto “Fra la Via Emilia e il West” lo restituisce oggi in una versione restaurata, restituendo al pubblico un frammento di storia musicale e culturale che ha pochi eguali. Un momento irripetibile, in un’epoca in cui un cantautore, per sua stessa natura più legato al circuito teatrale o a piazze raccolte, riusciva difficilmente a richiamare più di qualche migliaio di persone.

Ma perché proprio Guccini e perché così tante persone? La risposta si trova in una combinazione di fattori storici, culturali, e sociologici.

Il contesto storico e sociopolitico

Gli anni ’80 erano un periodo di transizione in Italia. Gli anni di piombo stavano scemando, ma il loro peso continuava a gravare sulla società. Il sogno di un cambiamento radicale stava sfumando, lasciando il posto a un nuovo pragmatismo, ma senza cancellare le radici culturali di chi aveva vissuto le lotte politiche e sociali. Bologna, in particolare, con la sua tradizione di apertura culturale e impegno politico, era il cuore pulsante di questa transizione.

In quel contesto, Guccini rappresentava una voce autentica, capace di unire generazioni e sensibilità diverse. Il suo pubblico includeva giovani, genitori e persino nonni. La sua poetica, spesso malinconica e intrisa di riflessioni esistenziali, trovava un’eco universale. I suoi brani parlavano a chi cercava un senso nel caos del mondo, offrendo una narrazione che andava oltre il semplice intrattenimento musicale.

Un fenomeno culturale senza precedenti

La scelta di Bologna, città di cultura e musica per eccellenza, non fu casuale. Qui erano nati o avevano trovato casa artisti come Lucio Dalla, Pierangelo Bertoli, Claudio Lolli e gruppi come i Nomadi. Era un terreno fertile per la musica d’autore, dove le osterie erano ancora luoghi di incontro e fermento culturale, spazi dove si mescolavano politica, arte e umanità.

Il titolo stesso del concerto, “Fra la Via Emilia e il West”, è una metafora potente: la Via Emilia rappresenta il radicamento, la continuità umana e sociale dei piccoli centri che si susseguono senza soluzione di continuità; il West, invece, è il richiamo alla libertà e agli spazi sconfinati. È il racconto di un’identità che non rinuncia alle sue radici ma guarda oltre, cercando nuove frontiere, proprio come fecero Guccini e i suoi amici nelle loro scorribande giovanili tra prati e stradine.

Il miracolo di 150.000 spettatori

Guccini riuscì a mobilitare una folla immensa per diverse ragioni. La sua figura rappresentava una sorta di anti-divo, l’opposto delle star rock. La gente accorreva non per luci e scenografie spettacolari, ma per ascoltare storie e sentirsi parte di una comunità. Era un rito collettivo, un modo per affermare la propria appartenenza a un mondo culturale che rifuggiva dalla superficialità. Eppure non era un concerto rock progressivo, non c’erano, in Piazza Maggiore, gli Stones o i Deep Purple e nemmeno i Beatles, c’era solo Francesco Guccini. Forse un autorevole professore di sociologia potrebbe illuminarci meglio, sociologicamente, per capirne il fenomeno di quanto scriva io eterno ignorante e cadetto di Guascogna che, però, non sopporta la gente che non sogna. Vasco Rossi, rockstar ambiguo amato soprattutto dalla destra anche se lui si professa di sinistra, riempie da soli dieci-quindici anni gli stadi, Guccini nel 1984 riempiva Piazza Maggiore di 150mila persone. un motivo ci sarà.

Il messaggio della sua musica, intriso di impegno sociale e poetica individuale, era perfetto per un’epoca in cui il bisogno di significato era ancora un valore. Oggi, con artisti che emergono da programmi come X Factor, la musica sembra spesso priva di quella profondità che caratterizzava i cantautori come Guccini, De Andrè, e De Gregori. Allora, il pubblico cercava qualcosa che li aiutasse a comprendere il mondo; oggi, il messaggio è spesso ridotto a un prodotto effimero.

Le canzoni e il loro significato

Il concerto del 1984 fu una celebrazione di alcuni dei brani più rappresentativi di Guccini. “L’isola non trovata”, con la sua riflessione sul desiderio e l’illusione, e “Piccola città”, una dedica intrisa di amore-odio alla sua Modena, toccano corde profonde, una città che io, erroneamente, ho sempre individuato in Pavia dove ho vissuto a inizio anni ’70 perché certe frasi, strofe, parole le vedevo riflesse sulle strade ciottolate di Pavia, ed invece dopo qualche tempo capii che Guccini faceva riferimento a Modena. “Le osterie di fuori porta”, poi, è un inno a quella Bologna capace di amore e di morte, con i suoi spazi dove cultura, vino e socialità si fondevano in un tutt’uno. In una Bologna “col seno sul fianco padano ed il culo sui colli”, “Bologna la rossa e fetale”.

Certo, forse era ragionevole attendersi altre canzoni come “Eskimo” o “Incontro” ma è comprensibile che, in fondo, quello non era un concerto ma un film. Il momento, tuttavia, più iconico resta però l’esecuzione de “La locomotiva”, canzone che chiudeva sempre i concerti di Guccini. Un brano che incarna la lotta per la giustizia sociale, un sogno proletario che oggi appare forse anacronistico, ma che all’epoca rappresentava un grido collettivo di speranza. Un messaggio, quello di “Trionfi la giustizia proletaria” che oggi si disperderebbe nel vento e non verrebbe capito da nessun giovane attratto dalla musica.

Emozioni senza tempo

Guardare al cinema “Fra la Via Emilia e il West” è stato come riaprire un vecchio album di fotografie: ogni canzone ha evocato ricordi e emozioni vivide. Mi sono sorpreso a cantare, a sapere ancora tutte le parole, e ho sentito un nodo alla gola. Avrei voluto essere lì, in quella Piazza Maggiore gremita, ma non so perché non ci andai. Forse il servizio militare, forse qualche altra circostanza, ma quel rimpianto è ora lenito da questa visione.

Rivedere quel concerto mi ha fatto venire voglia di riprendere la chitarra, magari con un chitarrista come Juan Carlos Biondini, “Flaco” per noi gucciniani, e riprovare il piacere di cantare insieme. Magari indossando un vecchio eskimo, simbolo innocente di un’epoca in cui le idee contavano ancora.

In fondo, Guccini non è solo un cantautore. È una memoria collettiva, un filosofo popolare che ci invita ancora oggi a guardare oltre la Via Emilia, verso un West fatto di sogni, poesia e libertà. E questa è una lezione che vale sempre la pena ascoltare.

Cadetto di Guascogna

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