E’ andata in scena all’Auditorium Vallisa di Bari, “La zia d’America”, una produzione Diaghilev, adattamento teatrale di Fabrizio Catalano del primo dei quattro racconti che fanno parte della raccolta di Leonardo Sciascia dal titolo “Gli zii di Sicilia”, insieme a “La morte di Stalin”, “Il quarantotto” e “L’antimonio”, diretta e interpretata da Paolo Panaro.
“La zia d’America” descrive un momento assai cruciale della storia del Novecento italiano, quello della fine della guerra, seguìto dalla partenza dei tedeschi e contestualmente dal tanto agognato arrivo degli Americani, emblema di libertà e prosperità economica, il “sogno americano” appunto, visto attraverso gli occhi ingenui, ma al contempo acuti, di un ragazzo che vive in un paesino non meglio precisato della Sicilia dell’epoca.
Ed era estasiante, soprattutto per quei bambini, di cui il nostro protagonista è la personificazione, l’apertura di quei pacchi pieni di cose mai viste o solo immaginate: scatole di aringhe, biscotti al gusto di menta, spaghetti in scatola, magliette con la faccia di topolino, pacchetti di chewing gum.
L’atteso arrivo degli Americani nel paesello, i cui abitanti, da sempre chiusi in un immobilismo di fatto, sia pure illudendosi di poter discutere tra loro dei “massimi sistemi” che animano la grande politica, nonostante la loro evidente marginalità sia geografica che esistenziale, creerà, da subito grande scompiglio: si festeggiano i liberatori, si bruciano le tessere del partito, c’è chi cambia bandiera politica dalla sera alla mattina, è tutto un fermento tra mercato nero, prostituzione a servizio degli Americani, un misto di speranze, paure, opportunismi e clamorosi voltafaccia.
Ed è proprio dalla voce di questo anonimo ragazzo che ascolta dai racconti dei soldati americani del benessere materiale del loro Paese fatto di dollari, automobili e sigarette, che si alimenta, giorno dopo giorno, grazie anche e soprattutto, alla corrispondenza epistolare di sua madre con la sorella, la zia d’America, il “mito” americano, fatto della agiatezza raggiunta con l’attività commerciale di lei, la famosa “shoppa”, cui si aggiunge l’attesa quasi messianica dei suoi pacchi-dono a parenti e compaesani.
Ma il momento culmine della storia è rappresentato dall’arrivo in paese della zia, accompagnata da marito e figli, con bauli e masserizie al seguito, che finisce per assumere tratti grotteschi e caricaturali, nella descrizione della zia che ne fa il ragazzo, bassa e corpulenta con il suo vestito a grandi fiori colorati, il marito con gli occhiali dorati e il sigaro in bocca, il figlio sempre arrabbiato, quadretto iconico da cui pare salvarsi solo la figlia, una bella ragazza di cui il ragazzo si invaghisce.
L’ostentazione da parte della zia di orpelli moderni e tecnologici (di cui fa richiesta nell’hotel che i parenti le avevano prenotato), i ridicoli termini in inglese storpiato di cui si riempie la bocca per stupire gli ingenui compaesani ne fanno un personaggio macchiettistico in cui, tuttavia, nel racconto di Sciascia, si delineano sfaccettature psicologiche più sottili e ancora meno edificanti, come la sua delusione nel constatare che i parenti non sono morti di fame, che non mangiano le cose americane che lei inviava perché hanno ancora pane di frumento, latte, uova e a volte carne, e non indossano nemmeno i vestiti dei famosi pacchi.
La zia d’America non è che una villana arricchita, che, sprezzante verso i suoi parenti e compaesani, ostentando il fulgore della sua nuova vita a fronte della miseria e dell’arretratezza in cui versano i parenti di cui non fa che lamentarsi, non ha dubbi, paradossalmente, quando decide di dare in sposa sua figlia allo zio fascista nullafacente, ex segretario amministrativo del fascio che si porterà al seguito, in un “familiare” viaggio di nozze ed infine in America.
Tutta questa molteplicità di personaggi, con i loro dialoghi, i pensieri, le movenze, le miserie e le contraddizioni sono portati sul palco da un eccezionale Paolo Panaro, capace, in un lungo ma avvincente monologo, di raccontare una storia tanto realistica quanto appassionante, riuscendo a dar vita a tutti i personaggi, rendendoli vividi e tangibili, come se fossero tutti lì sul palco.
E’ la potenza della parola, delle pause, delle diverse inflessioni della voce, delle rincorse, dei repentini cambiamenti di registro, a seconda dei personaggi dalla cui bocca quelle parole dovrebbero venir fuori, quella forza che, da sola, è in grado di tenere lo spettatore legato alla sedia, indignato, incuriosito, divertito, amareggiato, senza bisogno di null’altro che di se stessa: “in principio era il Verbo”.
E’ la potenza espressiva che solo i grandi attori possiedono e che arriva indistintamente a qualsiasi astante, tanto da farmi sorridere quando mia figlia adolescente, seduta accanto a me, a fine spettacolo, mi ha chiesto incuriosita come io quei personaggi me li fossi immaginati, non vedendo l’ora di raccontare a me come se li era figurati lei!
Raffaella Cavallone
Foto dalla pagina Facebook della Compagnia