“Mi sono stappato e ho deciso di dire tutto quello che volevo”: Max Giusti coinvolge il pubblico del Teatroteam di Bari con le sue “Bollicine”, raccontando con garbo e ironia anche ciò che è politicamente scorretto

Un comico è un osservatore della realtà, un narratore di fatti, sentimenti e avvenimenti, visti con la lente dell’ironia. Come il bambino della storia “I vestiti nuovi dell’imperatore”, può dire col sorriso sulle labbra quello che normalmente non si dice, per educazione o perché non è politicamente corretto. Il senso del nuovo spettacolo di Max Giusti, Bollicine, inserito nell’annuale cartellone del Teatroteam di Bari, è proprio il riappropriarsi di questa libertà, “stappandosi come una bottiglia di bollicine” (sono le sue parole) per dire quello che gli va, senza filtri, dimostrando che si può parlare di temi delicati senza essere offensivo o eccessivo. La strada, in alcuni casi, è anche quella dell’autoironia, del racconto di esperienze personali che, in quanto tali, autorizzano chi racconta a ridere per primo, a sdoganare un tema scottante senza risultare impopolare.

Qualche anno dopo il successo de “Il Marchese del Grillo”, Max Giusti torna in scena con un one man show scritto a quattro mani con Giuliano Rinaldi: due ore di spettacolo in cui tanto si ride, e tanto si canta. L’interazione continua col pubblico è la nota distintiva, e Giusti sollecita, pungola, strapazza, soprattutto in apertura, il pubblico pigro e un po’ ingessato del teatro (“Datemi un segno: sembra una convention di marmisti bulgari!”), chiamandolo a giocare, a condividere riflessioni e ricordi, con un richiamo al passato ma senza nostalgia, con tenerezza e disincanto.

In un flusso inarrestabile e con instancabile energia, Giusti racconta la contemporaneità e quelle realtà che tutti noi viviamo e conosciamo, o contro le quali ci troviamo a combattere, talvolta disarmati e impreparati.

L’utilizzo smodato dei social nei ragazzi, ma anche negli adulti; l’invadenza dei fumatori di sigarette elettroniche; la genitorialità iperprotettiva; l’approssimazione dell’informazione via web; i testi della Trap. Ma anche il sogno di diventare una star della tv e la constatazione che non la guarda più nessuno; la crudeltà di trasmissioni come Masterchef, dove i concorrenti accettano di farsi umiliare dai giudici. E poi il successo del delivery, legato al momento in cui all’uomo tocca cucinare (e la capacità di cucinare come nuova arma di seduzione maschile). Un rapido accenno al patriarcato e soprattutto un tenero, doloroso e personalissimo ricordo della prima dichiarazione ad una ragazzina, che accompagna il suo sdegnoso no con una coltellata terribile, che sembra ancora bruciare (“perchè sei un ciccione”).

La musica segna il passaggio da un quadro narrativo all’altro, e qui sì, qui subentra la nostalgia, ma anche il coinvolgimento del pubblico che canta, finalmente rilassato e totalmente coinvolto dal gruppo guidato da Fabio Di Cocco al pianoforte, Pino Soffredini alla chitarra, Fabrizio Fasella al basso e Daniele Natrella alla batteria.

Nella seconda parte, senza nulla rinnegare, ma anche senza indugiare per raccogliere l’applauso facile, le imitazioni en travesti che lo hanno reso famoso (De Laurentiis, Borghese, nonchè una manciata di secondi per Malgioglio), brevissime ma molto apprezzate dal pubblico, e una versione di We are the world ipoteticamente cantata da voci italiane (Baglioni, Califano, Al Bano, Guccini, Bertoli e tanti altri).

Uno spettacolo che scorre via veloce, che non sembra avere momenti di stanchezza. Una volta svegliato il pigro pubblico in sala (questione di pochi minuti), lo show diventa molto brioso e allegro, e Max Giusti può davvero dire che rimanda tutti a casa con un sorriso leggero sulle labbra.

Imma Covino

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