Un destino a pezzi, quello di “Anna Cappelli”: il testo di Annibale Ruccello con la regia di Claudio Tolcachir e l’interpretazione strabiliante di Valentina Picello ipnotizza il Teatro Kismet di Bari

Quando la mano è quella di una rockstar della scrittura teatrale, perfino l’umano, che diventa troppo umano quando si scopre disumano, riconosce le piccole e grandi tragedie del vivere. È così per Annibale Ruccello, un drammaturgo il cui filo vitale è stato una miccia che è bruciata velocemente, avendo il tempo però di esplodere più volte prima di spegnersi. Uno dei testi più esplosivi è “Anna Cappelli”. Un nome e un cognome qualunque, una banalità che sappiamo essere terreno fertile per il male, una donna qualunque.

La rilettura è quella di Claudio Tolcachir, regista argentino di forte richiamo, in una produzione Carnezzeria, Teatri di Bari e Fondazione Teatro di Roma in collaborazione con AMAT e Teatri di Pesaro per RAM. Lo spettacolo rientra nel cartellone “Attraversamenti” 2024/2025 del Teatro Kismet a cura di Teresa Ludovico. In scena Valentina Picello, che offre una performance terribilmente bella e sconvolgente.

Anna Cappelli è una donna sola, senza qualità. Accetta la corte del suo datore di lavoro fino ad andarci a vivere assieme, senza però sposarla (il testo originario parla di “more uxorio”, che nella rilettura di Tolcachir scompare). Anna, in ogni caso, si comporterà da padrona di casa. Quando l’uomo deciderà di vendere la casa e di andare altrove senza di lei, Anna lo ucciderà e farà a pezzi, con l’intenzione di mangiarli per farli sparire.

Il testo e l’interpretazione di Picello, la sua risatina e il suo pianto isterico, i suoi tic nevrastenici, sono così grotteschi, taglienti, sopra ogni limite dell’assurdo, che qualcuno, prima che la storia deflagri, osa perfino una risatina. Quando la comprensione del dramma è plastica davanti al pubblico, le risatine lasciano il posto a un’epifania che gela il sangue nelle vene.

Di certo, il gesto empio di Anna Cappelli non cerca una giustificazione presso lo spettatore, se non nel delirio in cui la stessa Anna si avviluppa, muovendo i suoi passi in una specie di terreno fangoso simulato sul palco, trovando vieppiù difficile tirarsene fuori. Il male può essere sì banale, ma anche relegarlo alla mera voglia di vendetta è altrettanto banale. Si scopre il profondo bisogno di approvazione di Anna da parte dei genitori, di cui questa relazione, pur non culminante in un matrimonio, sembra essere un riscatto importante che non ammette retromarce. Si legge l’ideale della bella vita, che rifugge della vita vera come reazione a un dolore così grande da togliere qualsiasi speranza e lucidità. Si comprende parola per parola la disperazione, il rifugio di chi non ha niente da perdere, ma che anzi, con l’intenzione di fagocitare la prova del delitto, prova a interiorizzare e a perpetuare il meccanismo di controllo esistenziale all’infinito.

Il pubblico, non senza provare disgusto per se stesso, quasi empatizza con le ragioni di Anna Cappelli, che più che dietro un’intenzione delittuosa si valida in almeno un’occasione in cui ci siamo immedesimati in lei. Per questo i costumi richiamano solo vagamente gli Anni Sessanta in cui il dramma è ambientato, astraendolo però da ogni riferimento spaziotemporale.

Non è un mistero, infatti, che quella specie di membrana che ci spinge a uccidere i padri con la mente ci aiuta a trovare una nostra identità, che in una specie empatica e sociale come la nostra ci risulta difficile digerire un rifiuto o la fine di un amore, che se il top manager di un’assicurazione privata statunitense fa morire i nostri nonni, il nostro primo pensiero sarà di ucciderlo, può mancare in chi compare nella cronaca nera.

Far pace con le zone d’ombra che occupano spazi in tutte le menti è il primo passo per non strappare la membrana, per accettare il male come immanenza e il disagio come ciclico. E spingerci ad andare avanti, anche se la vita, o un more uxorio più pressante, riducono noi a pezzi.

Beatrice Zippo

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