“Vermiglio”, un film azzurro: il film di Maura Delpero, vincitore del Leone d’argento alla LXXXI Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed ammesso agli Oscar come miglior opera internazionale, penetra dolcemente nel cuore degli spettatori

Vermiglio è una delicata boule de neige, una silenziosa sfera di vetro in cui galleggia la neve o esce il sole.

Il film di Maura Delpero, regista bolzanina al suo terzo lungometraggio dopo diverse esperienze dedicate al documentario, racconta la vita di un piccolo paesino dell’Alto-Adige, Vermiglio, nei dodici mesi a cavallo tra il 1944 e il 1945.

Lontana dai rumori della seconda guerra mondiale, la comunità di Vermiglio vive una quotidianità scandita dallo scorrere delle stagioni, dal posarsi e dallo sciogliersi della neve, dai lavori nei campi e con le bestie, dall’attesa di notizie e lettere dal fronte fino a quando due disertori arrivano in paese: Attilio, interpretato da Santiago Fontevilla, figlio della comunità e Pietro, Giuseppe De Domenico, un commilitone siciliano che lo ha soccorso riportandolo a casa. L’arrivo dei due altera le abitudini e gli equilibri della comunità, soprattutto quelli della famiglia Graziadei nella quale Lucia, nella intensa interpretazione di Martina Scrinzi, figlia maggiore, si innamora di Pietro.

Vermiglio è un film sussurrato, in cui tutto è discreto, anche le passioni, in cui i personaggi sono delineati con precisione: Cesare Graziadei, capofamiglia e maestro dell’unica scuola di Vermiglio, è un uomo tanto autoritario quanto autorevole a cui fanno da contraltare sua moglie e le figlie, tutte dotate, al contrario, di una profonda intelligenza emotiva; Pietro e Attilio, i due disertori che non parlano quasi mai, sono uomini traumatizzati dalla guerra che per tutto il film riescono ad essere presenti nelle vicende umane che gli girano attorno pur essendosi confinati nell’assenza. Ma sono sicuramente i personaggi femminili quelli che più caratterizzano Vermiglio: Lucia, Flavia (Anna Thaler) e Adele (Roberta Rovelli), le tre sorelle, spina dorsale del film, i cui caratteri e destini sono tanto diversi quanto uniti sotto la medesima influenza di Cesare (Tommaso Ragno); Adele (Roberta Rovelli), moglie e madre tanto modesta e sottomessa quanto decisa e risoluta nell’affrontare i dieci parti che costellano la sua vita e l’educazione emotiva degli otto figli rimasti in vita.

Maura Delpero, regista e autrice della sceneggiatura di Vermiglio, classe 1975, ha iniziato a firmare lavori dal 2005, anno di uscita di Moglie e buoi dei paesi tuoi – mediometraggio documentario che arriva dopo il lavoro sul set di Le ferie di Licu di Vittorio Moroni. Vermiglio è la terza regia di un lungometraggio. Precedentemente c’erano stati, nel 2008, il documentario Signori professori che ha vinto il Premio UCCA al Torino Film Festival e Maternal, film drammatico del 2019 che è stato distribuito in sala nel 2021 ed è stato premiato a Locarno.

A proposito della genesi del suo ultimo lavoro racconta “Mio padre ci ha lasciati un pomeriggio d’estate. Prima di chiuderli per sempre, ci ha guardati con occhi grandi e stupiti di bambino. L’avevo già sentito che da anziani si torna un po’ fanciulli, ma non sapevo che quelle due età potessero fondersi in un unico viso. Nei mesi a seguire è venuto a trovarmi in sogno. Era tornato nella casa della sua infanzia, a Vermiglio. Aveva sei anni e due gambette da stambecco, mi sorrideva sdentato, portava questo film sotto il braccio: quattro stagioni nella vita della sua grande famiglia. Una storia di bambini e di adulti, tra morti e parti, delusioni e rinascite, del loro tenersi stretti nelle curve della vita, e da collettività farsi individui. Di odore di legna e latte caldo nelle mattine gelate. Con la guerra lontana e sempre presente, vissuta da chi è rimasto fuori dalla grande macchina: le madri che hanno guardato il mondo da una cucina, con i neonati morti per le coperte troppo corte, le donne che si sono temute vedove, i contadini che hanno aspettato figli mai tornati, i maestri e i preti che hanno sostituito i padri. Una storia di guerra senza bombe, né grandi battaglie. Nella logica ferrea della montagna che ogni giorno ricorda all’uomo quanto sia piccolo. Vermiglio è un paesaggio dell’anima, un “lessico famigliare” che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per mio padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese. Attraversando un tempo personale, vuole omaggiare una memoria collettiva”

È un’opera femminile Vermiglio, nella visione profonda quanto leggera delle vicende umane, nella delicatezza del racconto, nella scelta delle inquadrature che vedono protagonista una montagna mai imperiosa, mai crudele, mai minacciosa. L’azzurro filtra le scene, c’è questo uso della luce fredda che tiene lo spettatore lontano dalle vicende eppure costantemente attento, è come se tutto il film fosse girato dentro un cristallo di neve, freddo fuori ma vivissimo dentro. Lo hanno definito un film francescano, asciutto, semplice, io ho invece trovato Vermiglio un film carsico, profondo, che penetra nel cuore dello spettatore lontano dallo schermo, quando i titoli di coda sono finiti, nelle ore che succedono alla proiezione, uno sguardo o il lembo di un vestito, il pianto di un neonato o l’espressione di un volto scavano nel cuore dello spettatore.

Simona Irene Simone

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