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“Tutto ha inizio sempre da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi. [Con “La grande magia”] ho voluto dire che la vita è un giuoco, e questo giuoco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede. Ed ho voluto dire che ogni destino è legato al filo di altri destini in un giuoco eterno: un gran giuoco del quale non ci è dato di scorgere se non particolari irrilevanti.” (Eduardo De Filippo)
“In quanto esseri umani abbiamo buone qualità, ma anche cattive. Ora, la rabbia, l’attaccamento, la gelosia, l’odio, sono il lato oscuro; è questo il vero nemico. Il vero guastafeste sta dentro.” (Tenzin Gyatso – XIV Dalai Lama)
Se scrivere de “La grande magia” appare – come effettivamente è – difficile, almeno per noi, immaginiamo sia esponenzialmente più arduo mettere in scena l’Opera – per stessa ammissione dell’autore – più dolorosamente controversa che sia scaturita dalla incommensurabile penna di Eduardo De Filippo; infatti, l’improba prova, dopo la primordiale e contestata messa in scena del 1949, è stata affrontata solo dal divino Giorgio Strehler nella fortunata edizione datata 1985/87, e, più di recente, dall’erede universale della poetica eduardiana Luca De Filippo che, prima di lasciarci immaturamente orfani della sua Arte, ha portato sulle scene la sua versione dell’Opera dell’illustre genitore, di cui siamo stati a suo tempo fortunati spettatori.
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Di certo non è cosa semplice confrontarsi con il dramma (dis)umano di Calogero Di Spelta, uomo talmente rigido con se stesso e con gli altri da non riuscire nemmeno a confessare che la propria ossessiva gelosia per la bellissima moglie Marta derivi dal suo smisurato amore per lei, sino a giungere a negare l’evidenza della fuga fedifraga della stessa, preferendo credere di essere vittima di un incantesimo del prestigiatore Otto Marvuglia, in realtà un imbonitore che vive di espedienti, che avrebbe relegato Marta in una cassettina da cui potrà sortire solo se il marito crederà fermamente nella sua fedeltà. Il ‘giuoco’, come lo chiama imperiosamente Marvuglia, prosegue per ben quattro lunghi anni, tempo in cui Calogero, ormai vittima della sua lucida pazzia, non si sentirà mai abbastanza disposto ad aprire l’inseparabile cassetta; e proprio quando, ritenendo di aver ultimato il proprio viaggio infernale e – egli crede – virtuale, si deciderà all’importante passo, la traditrice riapparirà confessando la verità sulla sua fuga d’amore e cercando di riportare l’uomo nell’alveo della realtà, sarà troppo tardi per Calogero che avrà già operato la propria scelta di campo: vivere per sempre la sua più rassicurante esistenza parallela nel ‘giuoco’.
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L’attenzione di De Filippo, come sempre, è rivolta all’uomo, immortalato nell’attimo della decisione, senza spiegarne mai sino in fondo l’interno volere e, soprattutto, senza emettere giudizi sul suo operato (si pensi ad un ‘altro marito eduardiano’, il Pasquale Lojacono di “Questi fantasmi”), ma qui il ‘giuoco’ si fa più intricato e sottile, come se il genio partenopeo avesse incontrato e sposato i dubbi e le visioni dell’altro grande autore del nostro Teatro, Luigi Pirandello, pur essendo ormai lontani i tempi della collaborazione tra i due avutasi per la scrittura de “L’abito nuovo”, pièce andata in scena nel 1937, poco dopo la morte di Pirandello, frutto dell’infatuazione di Eduardo, criticata finanche dall’illustre fratello Peppino, per i temi pirandelliani che lo aveva già portato a rappresentare “Liolà” ed “Il berretto a sonagli” in lingua partenopea; è comunque innegabile che la commistione tra i due Geni del teatro italiano avesse permesso che si creasse una scrittura nuova, inedita, in cui (ri)affioravano le tematiche care ad entrambi, ma senza mai segni di prevaricazione: così, la profondità dei protagonisti pirandelliani, sempre all’affannosa ricerca di un significato in una realtà che si rivela irreale ed irrisolta, riusciva a fondersi con il senso comune eduardiano, con quel suo affondare il coltello nelle pieghe e nelle piaghe dell’infinito contrasto tra classi, tra ceti, tra uomini.
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Nel suo Calogero, De Filippo pare riabbracciare l’opera del drammaturgo siciliano, in particolare confrontandosi con l’“Enrico IV”, investigando su quella che Albert Einstein chiamava “l’illusione ottica della nostra stessa coscienza”, vale a dire quella residua volontà umana di “sperimentare i propri pensieri e le proprie sensazioni come separati dal resto”, come fossimo “una parte limitata nel tempo e nello spazio”, separazione che “è per noi una sorta di prigione, che ci limita ai nostri desideri personali ed all’affetto per le poche persone a noi più vicine”; ma se il geniale matematico concludeva che “il nostro compito deve essere di liberarci da questa prigione, allargando il cerchio della compassione per abbracciare tutte le creature viventi e la totalità della natura e della sua bellezza”, qui Eduardo, come del resto faceva Pirandello, preferisce meditare sull’esile distinzione tra realtà ed illusione, giungendo sino a sentenziare che anche il trascorrere del tempo, il lento avvicendarsi dei minuti, delle ore, degli anni è soltanto un inganno, ed il graduale disfacimento del corpo è pura menzogna: “il tempo sei tu” ripete spesso Marvuglia a Di Spelta, e questa negazione della esistenza del tempo, questo incessante differire la vita in un altrove che, con ragionevolezza, mai sarà, non può che sfociare nel più profondo nichilismo ed, infine, nella follia.
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Oggi “La grande magia” rivive sui nostri palcoscenici, tra cui quello del Teatro Piccinni di Bari – dove peraltro Eduardo faceva spesso debuttare i suoi spettacoli – nell’ambito della Stagione “Altri mondi”, grazie alla produzione Teatro di Napoli – Teatro Bellini / Teatro Biondo Palermo / Emilia Romagna Teatro ERT con la regia di Gabriele Russo e due protagonisti di assoluto pregio come Michele Di Mauro e Natalino Balasso.
Russo ci consegna una versione della pièce più ‘fisica’ ed ‘urlata’ rispetto a quella tutta introspettiva di Luca De Filippo, ma comunque oltremodo accattivante nella sua indubbia originalità, potendo peraltro contare sul disegno luci di Pasquale Mari, i costumi di Giuseppe Avallone ed, in particolare, sulle scene di Roberto Crea che ricompongono immediatamente il rapporto tra realtà e finzione; la regia sembra prediligere le componenti apertamente buffonesche, se non clownesche – esemplare, in tal senso, l’esilarante gag dell’agente che indaga sulla sparizione della Signora Di Spelta –, dando meno risalto alle – comunque presenti – questioni più sottilmente filosofiche, così da risultare molto coinvolgente e fluida, anche grazie alla decisione di riunire i tre atti in uno solo, senza intervallo e con cambi d’abito a vista, di fatto realizzando il richiesto ‘giuoco’ non solo tra gli attori sul palcoscenico, ma anche tra questi e la platea.
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Per compiere questa sua ‘grande magia’, Russo ha saputo preparare in modo perfetto l’ottima Compagnia composta da Veronica D’Elia, Maria Laila Fernandez, Sabrina Scuccimarra, Alice Spisa, Anna Rita Vitolo, Gennaro Di Biase, Christian di Domenico, Alessio Piazza e Manuel Severino, tutti spesso in doppio ruolo probabilmente per continuare il ‘giuoco’, su cui spiccava, ça va sans dire, la grande presenza scenica di Michele Di Mauro che si appropria splendidamente del ruolo di Marvuglia, che fu di Luca e del suo celeberrimo padre – anche se Eduardo amava interpretare entrambi i protagonisti principali in alternanza -, non solo facendo rivivere tutti gli irrisolti interrogativi posti dal suo personaggio, ma aggiungendo una lettura che, complice chiarissimi richiami alla (attuale?) classe dirigente, oseremmo definire politica, in cui pare invitare i maldestri contemporanei a riconoscere i segni del nostro tempo ed a vagliarne le risposte sociali, allontanandosi il più possibile dalla ignavia mentale manifestata da Calogero Di Spelta, che qui ha l’altissima arte attoriale di Natalino Balasso, tanto sommesso nei primi due quadri quanto istrionico nel terzo, con un crescendo interpretativo che nelle scene finali lascia attoniti per l’assoluta credibilità del delirio, sino ad ergersi a protagonista unico, quasi ad incarnare in uno solo lo stesso Di Spelta e Marvuglia, così da trasmetterci in un unico momento tutto il dolore che lo lacera, che non è odio per l’adultera e per il genere umano in senso totale, ma semmai sgomento per la sorte crudele che gli è stato dato in sorte di vivere, per quel destino infame e patrigno che decidendosi infine a spezzare inesorabilmente il filo delle apparenze con cui aveva legato e intrappolato questo suo figlio rinnegato e reietto, di fatto lo costringerà a vivere da folle o a mascherarsi da tale, in un corto circuito che non prevede né ammette soluzioni.
Pasquale Attolico
Foto dalla pagina web della Compagnia