
Ricordo perfettamente il momento in cui sono diventata adulta.
È stato un pomeriggio, forse d’autunno, quando ho sfiorato per caso la mano nodosa di mio padre ed era gelida.
Le mani di mio padre.
Che mi hanno tenuta in braccio neonata, che hanno tenuto saldo il sellino della bici senza rotelle mentre provavo faticosamente a tenermi in equilibrio, le mani grandi, nodose, di mio padre che, diventata adolescente, per un pudore antico, non mi hanno più abbracciata, ora erano le mani di un vecchio.
E se vecchio era diventato lui, adulta di conseguenza ero io, non foss’altro che per essermi accorta della di lui discesa verso la vecchiaia.

Per quei figli che vedono invecchiare i genitori, e soprattutto per quei figli che assistono i propri genitori nelle malattie terminanti, c’è un tempo in cui si percepiscono distintamente tutti i passi della morte che sta arrivando: non è ancora morte, è un tempo sospeso a cui ci si può solo arrendere e adeguarsi: non ci sono farmaci abbastanza potenti, non c’è disperazione abbastanza profonda, non c’è speranza abbastanza tenace che cambi il lento e inesorabile avvicinarsi della fine.

Il grande vuoto, la pièce di Fabiana Iacozzilli in scena al Teatro Piccinni di Bari nell’ambito della Stagione “Altri Mondi”, ultimo capitolo della Trilogia del Vento, è il racconto di una famiglia che svanisce, è il racconto del tempo in cui un genitore si avvicina passo dopo passo al termine della vita e ci dà la responsabilità di accompagnarlo fino alla fine dei giorni. Protagonista una prodigiosa Giusi Merli nei panni di una ex attrice affetta da una malattia neurodegenerativa che, giorno dopo giorno, dimentica tutta la sua vita, tranne il monologo della tragedia shakespeariana del Re Lear, il suo cavallo di battaglia. In scena questo dissolversi è amplificato dal prosciugarsi dei ricordi mentre la casa di famiglia si popola di oggetti sempre più numerosi e sempre meno riconoscibili che occupano e riempiono tutte le stanze. Accanto alla Merli, brillante e rassicurante, Ermanno De Biagi, marito e padre, che con Giusi Merli divide l’inizio dell’atto scenico ricco di quotidiane abitudini, rimproveri, piccole liti, piccole pacificazioni, rimbrotti, dentro e intorno ad una vecchia auto di ritorno dalla spesa. Francesca Farcomeni e Pietro Lanzillotti, i due figli, evolvono nei loro personaggi con il procedere della storia: quando il padre non c’è più e la madre si sta dissolvendo il personaggio della Farcomeni, che nasce volitivo, risolutivo, quasi marziale, diventa tenero e disperato, mentre suo fratello Pietro, che le fa da contraltare, passa da adulto irrisolto, coccolato e superficiale a uomo consapevole e comprensivo sotto lo sguardo paziente, saggio e distaccato di Mona Abokhatwa, per la prima volta in scena.

Lo spettacolo, candidato a quattro Premi UBU 2024 (miglior Spettacolo di Teatro, miglior Regia, miglior Attrice e migliori Luci), è stato scritto, come detto, da Fabiana Iacozzilli, insieme a Linda Dalisi alla drammaturgia, a partire da improvvisazioni e testimonianze raccolte in RSA e ispirato ai romanzi Una donna di Annie Ernaux, Fratelli di Carmelo Samonà e I cura cari di Marco Annicchiarico. Non c’è niente da interpretare nell’allestimento scenico e nella scrittura: lo spettatore prende parte a scene quotidiane, ripetitive, in cui si snoda una vita come tante, una lampadina accesa dietro i vetri di una cucina abitabile. La narrazione teatrale però sul finale si contamina con il video per raccontare che, grazie alle fotocamere Tapo e ai loro video ad alta risoluzione con visione notturna, usate per sorvegliare le attività canine negli appartamenti, un figlio può entrare senza essere visto nella vita del proprio genitore: può guardare la madre giocare al solitario, fissare la televisione spenta, parlare con persone che non esistono, parlare con una ciabatta, non farsi il bidet, cucire un foglio su una macchia di sporcizia, piangere, stare seduta e ferma sul bordo del letto, passare la notte a tirare fuori dai cassetti fotografie, pezzi di carta, mutande sporche, per poi rimetterli dentro.

In questa angoscia, nei gesti inconsapevolmente disperati di tutti i protagonisti, c’è una domanda che cambia le sorti di questa storia: “Come si può trasformare tutto questo dolore in bellezza?”.
La risposta è in realtà nascosta tra le pieghe dello spettacolo, è custodita nella noiosa ripetizione del racconto di una tournée a San Pietroburgo ed emerge potente solo quando Francesca e Pietro si arrendono alla bellezza del teatro: travestendosi e immergendosi a loro volta nella realtà di Re Lear. Mentre i coriandoli volano sulle ali di un grande ventilatore finalmente il Re ritrova la sua corona, completa di spada laser e tovaglia-mantello.
Simona Irene Simone
Foto dalle pagine web della Compagnia