
“Il Teatro non è archeologia. Il non rimettere le mani nelle opere antiche, per aggiornarle e renderle adatte a nuovo spettacolo, significa incuria, non già scrupolo degno di rispetto. Il Teatro vuole questi rimaneggiamenti, e se n’è giovato incessantemente, in tutte le epoche ch’era più vivo. Il testo resta integro per chi se lo vorrà rileggere in casa, per sua cultura; chi vorrà divertircisi, andrà a teatro, dove gli sarà ripresentato mondo di tutte le parti vizze, rinnovato nelle espressioni non più correnti, riadattato ai gusti dell’oggi. E perché questo è legittimo? Perché l’opera d’arte, in teatro, non è più il lavoro di uno scrittore, che si può sempre del resto in altro modo salvaguardare, ma un atto di vita da creare, momento per momento, sulla scena, col concorso del pubblico, che deve bearsene.” (Luigi Pirandello)
Da tempo sono portato a credere fermamente che chiunque voglia accostarsi, misurarsi, affrontare l’imponente fatica di riscrittura ed interpretazione di “Uno, nessuno e centomila”, l’ultimo romanzo di Luigi Pirandello che egli stesso definì “il più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”, non possa prescindere dalle parole che abbiamo riportato in apertura d’articolo. In effetti, l’operazione ha in sé moltissime insidie ed il solo pensiero di mettere in scena l’opera monumentale, inizialmente pubblicata nel 1925, dopo ben sedici anni di gestazione, a puntate nella rivista “La fiera letteraria” e poi l’anno successivo in volume, fa tremare i polsi, non essendo mai semplice entrare nei solchi del pensiero pirandelliano attraverso la sua opera più complessa, la summa definitiva di tutta la sua concezione di vita, di quella personalissima quanto geniale analisi, partita da molto lontano e poi mai abbandonata e richiamata in ogni testo, che vuole “la realtà in perpetuo movimento, in eterno divenire, in incessante trasformazione da uno stato all’altro”, con l’essere umano che, staccatosi da questo flusso in un impeto di folle individualismo, si condanna ad assumere una forma, un’immagine, a diventare un manichino (“Pupi siamo! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere” diceva già ne “Il berretto a sonagli”), sino a costringersi ad indossare prima la maschera con cui si presenta a se stesso, e poi migliaia di maschere corrispondenti alle infinite visioni che gli altri hanno di uno stesso uomo che, pertanto, perde la sua individualità diventando, da “uno”, “centomila” e, quindi, “nessuno”. Per spiegarmi meglio, consentitemi di ricorrere a quanto magnificamente affermava il Maestro Giorgio Gaber nel suo album “Anche per oggi non si vola”: “Anch’io, ogni volta che mi incontro con qualcuno, tac, avverto subito, da parte di chi mi guarda, una percezione che mi viene ributtata addosso, e sapendo di essere percepito così, e magari anche accettato, non posso più stravolgere l’idea che si sono fatti di me. Guai a presentarsi, guai a raccontare la propria storia personale, sei bloccato. Cambiare diventa difficilissimo. Si potrebbe quasi dire, che è impossibile sfuggire al destino di essere congelati nei pensieri degli altri”.

Non accettare questa verità inconfutabile o addirittura tentare di superarla in piena coscienza ed autonomia, non può, per Pirandello, che condurre alla follia, iperbole definitiva che viene tracciata, particolareggiata ed, infine, percorsa dal protagonista del romanzo, Vitangelo Moscarda, uomo che vive la sua vita di agio ed ozio grazie al lascito ereditario del padre che gli ha intestato una banca, inconsapevole dei suoi infiniti “io”, fino a quando una semplice – e se vogliamo stupida – osservazione della moglie sul suo naso (“ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra”) non lo costringerà a ripensare a se stesso e, soprattutto, all’immagine che hanno di lui gli altri. Scoprire “chi è veramente Vitangelo Moscarda” sarà da quel momento l’unico scopo della sua esistenza: nel tentativo di comprendere, cambierà vita, rinunciando ai facili guadagni della sua banca, costruiti sull’infelicità altrui, e finanche all’amore della giovane moglie ed alla compagnia della signorina Anna Rosa, che ha per il nostro eroe sentimenti di attrazione e di terrore nel medesimo istante; eppure tale trasformazione non sembra dettata da un desiderio di salvifico miglioramento, di purezza spirituale, bensì – semmai – dalla necessità di confondere, sbalordire, scioccare e – perchè no – traumatizzare il prossimo, nell’incessante tentativo di non farsi mai trovare dove gli altri credono tu sia, accelerando in curva al solo scopo di far perdere le proprie tracce, vivendo appieno ogni istante della vita, senza schemi e senza alcuna soluzione di continuità, rinunciando persino al proprio nome per rinascere continuamente a se stessi: “La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo” sono le ultime parole di uno dei capolavori assoluti della letteratura di tutti i tempi, parole che scandagliano la nostra coscienza mettendoci di fronte agli specchi deformanti della nostra stessa esistenza, di quella tanto rassicurante quanto falsa immagine che abbiamo eletto a nostra realtà.

Spiace dover affermare che i temi cari al sommo Maestro e le sue dotte quanto imprescindibili indicazioni in merito alla messa in scena dei suoi capolavori non abbiano trovato acquiescenza nella produzione Teatro Ghione / Vela Classica S.r.l. con l’adattamento e la regia di Nicasio Anzelmo passata fuori programma sul palco del Teatro Piccinni nell’ambito dell’annuale cartellone della Stagione di prosa ‘Altri Mondi‘ del Comune di Bari, che non ha fatto breccia nello spettatore non riuscendo, se non raramente, a toccare le giuste corde per la creazione del necessario rapporto empatico con la sala. Nella chiaroscurale, se non opaca, lettura di Anzelmo, anche la prova nel ruolo del protagonista di Primo Reggiani, molto amato soprattutto dal pubblico di ultima generazione, è apparsa didascalica, volenterosa ma poco centrata, non riuscendo a restituirci compiutamente un’impressione di contemporaneità, di vicinanza, di somiglianza, con la figura di quel Vitangelo Moscarda universalmente riconosciuto come uno dei maggiori rivoluzionari non solo tra i personaggi pirandelliani ma della stessa storia dell’umanità, un eroe dei nostri tempi, attualissimo, perfetta icona di quanti decidono ancora oggi di votarsi alla resistenza, al rigore, al coraggio, rifiutando decisamente di sottostare all’altrui idea di libertà, non riuscendo ad adattarsi alla vita che, convenzionalmente, crediamo di aver potuto scegliere, ma che, invece, abbiamo ricevuto in sorte; la performance del giovane attore appare talvolta finanche schiacciata dalla presenza scenica del validissimo cast formato da Francesca Valtorta, Jane Alexander, Fabrizio Bordignon ed Enrico Ottaviano, per lo più impegnati in svariati ruoli, che resta tra i punti di merito di questa edizione assieme ad un incontrovertibile valore didattico, testimoniato dalla presenza in sala (anche durante le matinèe) di molteplici scolaresche, nella speranza che sia servita a piantare un prezioso seme nell’animo di ogni giovane spettatore nei confronti dell’immensa Arte pirandelliana.
Pasquale Attolico
Foto dal sito del Teatro Ghione