
“Quando un musicista ride, depone il suo strumento e ride e non si guarda in giro e non teme, non ha paura della sua semplicità.” (Enzo Jannacci)
“Quando Giorgio lavorava con Enzo, penso partissero sempre dall’amicizia. E poi la loro concezione artistica era qualcosa del tipo “sfruttiamo la chimica azione/reazione”, quello che gli americani chiamano interplay. Credo che ogni incontro cambiasse le loro carriere, perché erano scintille che si accendevano in un discorso mai veramente interrotto, che coinvolgeva il personale in profondità. Anche se poi ognuno avrebbe proseguito con le proprie idee, i propri tempi, le proprie scelte artistiche.” (Paolo Jannacci)
“Jannacci è stato un maestro, per me è un vero poeta, mi sento molto vicino al suo feeling. Come autore e personaggio di spettacolo è davvero grande. È uno che sa divertirsi, prendere le cose per il verso giusto e dire delle cose interessantissime. Prendi ‘Giovanni il telegrafista’, dove risulta patetico con estrema eleganza.” (Rino Gaetano)

Quando qualche anno fa, dopo essere stato fortunato spettatore dello spettacolo “Ci vuole orecchio – Elio canta e recita Enzo Jannacci”, auspicavo una nuova stagione per quel progetto, magari inserendovi gemme del repertorio di insostituibili sodali del sommo Jannacci quali il suo eterno amico (e Maestro di tutti noi) Giorgio Gaber o anche i mitici Cochi e Renato, invero non speravo che tale preghiera fosse ascoltata e finanche accolta. Invece quell’atteso miracolo si è materializzato davanti agli occhi del pubblico delle grandi occasioni della Camerata Musicale Barese che ha affollato – nonostante la concomitante serata inaugurale dell’annuale Festival di Sanremo – il Teatro Petruzzelli di Bari accogliendo con vere ovazioni ogni inserto di “Quando un musicista ride”, la nuova fatica teatralmusicale del grande Stefano Belisari, ossia l’Elio delle mitiche Storie Tese.

Ancora una volta coadiuvato da Giorgio Gallione per la regia e drammaturgia e da Paolo Silvestri per gli arrangiamenti musicali, magnificamente eseguiti da Alberto Tafuri al pianoforte, Martino Malacrida alla batteria, Pietro Martinelli a basso e contrabbasso, Matteo Zecchi al sassofono e Giulio Tullio al trombone, tutti bardati nei costumi di Elisabetta Menziani ed illuminati dalle luci di Andrea Violato, Elio scandaglia il repertorio di artisti irraggiungibili, insuperabili, irreplicabili, recuperando il loro genio e riuscendo a riproporlo, trasmetterlo, renderlo ancora vivo, risultando, infine, talmente affine, tanto per estrazione quanto per percorso artistico, da poter risultare, addirittura, sovrapponibile ai Maestri omaggiati. Elio, però, non si accontenta di riproporre gli evergreen che tutti noi conosciamo ed apprezziamo (sarebbe stato troppo semplice), bensì scava e scova il forziere dei suoi – e nostri – riferimenti nel tentativo di rintracciare, stanare, rendere visibili alle presenti e – perché no? – future generazioni i gioielli più nascosti dell’immenso bagaglio trasmessoci in eredità.

Lasciandosi guidare dalla visione surreale che da sempre gli è congeniale, qui ben rimarcata dalla scenografia, curata da Lorenza Gioberti, e dalle immagini sullo schermo che rimandano all’Arte di Magritte, Elio riesce magicamente a creare un ritratto di artisti che nessuno ha mai potuto né mai potrà etichettare, educare, legare, relegare ad un ruolo prestabilito; del resto – e chi, come me, c’era può testimoniarlo -, Giorgio, Enzo, Cochi e Renato, come anche l’immenso Dario Fo da cui tutto è stato generato, erano soliti palesarsi esclusivamente quando avevano qualcosa di importante da dire, quando erano consci che le loro creature, musicali o teatrali, fossero pronte a diventare messaggi, moniti, sassi lanciati in mezzo all’acqua stagnante del nostro Paese, spesso utilizzando l’arma dell’ironia, nel tentativo di fare ancora più male e tentare di risvegliare coscienze a lungo sopite. Ebbene, Elio, che ha da sempre fatto dell’ironia la sua regola, si attesta come l’incontrastato principe ereditario di quella tradizione, il miglior rappresentante di un modo di intendere l’arte e la vita stessa di cui sentiamo sempre più il bisogno e che speriamo non vada mai persa.

Dopo l’apertura con Quando un musicista ride, di Jannacci venivano menzionate La gallina, la splendida Giovanni telegrafista, Il primo furto non si scorda mai, Un foruncolo, Ho soffritto per te e Rido, mentre di Gaber trovavano posto l’iconica L’odore e Benzina e cerini; tra quelle portate al successo da Cochi e Renato non mancano Cos’è la vita, Finché c’è la salute e la mitica Canzone intelligente, proposta in chiusura di serata. Inattesi ma graditissimi risultavano gli inserimenti di Vorrei tanto (suicidarmi) dei mitici I gufi e di Baciami la vena varicosa / Oh mama, voglio l’uovo a la coque / Il deficiente, un medley targato anni ’60 tra boogie e rock’n’roll di Clem Sacco, trascurato padre putativo di quella musica demenziale italiana che avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti negli Skiantos dell’indimenticato Freak Antoni. Nel mezzo, Elio recita da par suo perle letterarie come sgranasse un rosario di autori magnifici, in cui trovano posto il citato Fo ma anche Ennio Flaiano, Marcello Marchesi e lo stesso Belisari, di cui ho riconosciuto Il topo ambizioso, tratto dalle sue Fiabe centimetropolitane.

E durante la meritatissima acclamazione finale di un pubblico che si dimostrava attento e preparato, mi sembrava che, grazie ad Elio ed agli Artisti richiamati – o, meglio, ‘riconvocati’ su quel palco –, si potesse finalmente realizzare il dogma di Arthur Schopenhauer, il quale affermava che “ogni genio è un gran fanciullo, già per il suo guardare al mondo come a un che di estraneo. Chi nella vita non resta per qualche verso un fanciullo e diventa invece un uomo serio, sobrio, posato e ragionevole, sarà certo un bravo e utile cittadino di questo mondo, ma un genio non sarà mai”: ebbene, non vi è dubbio alcuno che, nella serata della Camerata, noi si sia avuto a che fare con dei Geni. Assoluti.
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla
dalla pagina Facebook della Camerata