
“Non si può vivere senza, l’umanità non può vivere senza il Teatro. Forse un giorno si potrà vivere senza il cinema, ma senza il Teatro è impossibile. Almeno finché esiste l’uomo, finché esiste lo specchio, il riflesso di noi stessi che respira, vivo come noi. L’uomo ha bisogno dell’uomo, di essere riconosciuto, di vedersi di fronte e farsi delle domande, per cui non penso che il Teatro morirà mai.” (Emma Dante)
“La bellezza non è un bisogno ma un’estasi, non è una bocca assetata né una mano vuota protesa in avanti ma piuttosto ha un cuore infuocato e un’anima incantata. Non è la linfa della corteccia rugosa né un’ala attaccata a un artiglio. La bellezza è un giardino sempre in fiore e una schiera d’angeli sempre in volo. La bellezza è la vita quando la vita si rivela. La bellezza è l’eternità che si contempla allo specchio e noi siamo l’eternità e lo specchio.” (Kahlil Gibran)

E sì che, dopo tanti anni di assoluta votata fedeltà, dovremmo esserci abituati; e invece no, per fortuna non c’è alcuna possibilità di abituarsi alla bellezza – la stessa testè citata nelle parole di Gibran – dei capolavori di Emma Dante tra cui va sicuramente annoverato questo “Re Chicchinella”, fiore all’occhiello dell’ottima Stagione ‘Attraversamenti’ del Teatro Kismet di Bari, come sempre curata da Teresa Ludovico, terza e, a detta della drammaturga palermitana, ultima incursione, dopo “La scortecata” e “Pupo di zucchero”, in quell’immenso tesoro che Giambattista Basile ci ha lasciato in eredità con “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille”, la magnifica raccolta di cinquanta favole fosche e tetre pubblicata postuma tra il 1634 ed il 1636. Eppure, lasciatemi immediatamente affermare che, a mio modesto parere, sarebbe un vero peccato se la Dante decidesse di abbandonare il suo incontro/confronto/scontro con il mondo del grande scrittore partenopeo, ‘relazione’ che, di fatto, ha avuto un’altra perla di luce accecante nella sua prova registica alle prese con l’opera lirica “Cenerentola” di Rossini, passata qualche anno fa sul palco del nostro Teatro Petruzzelli, essendo stato proprio Basile il primo ad introdurre la fiaba in Occidente con la sua “La gatta Cenerentola”, progenitrice delle successive versioni di Perrault e dei fratelli Grimm; pur avendoci provato in tanti, tra cui non può non ricordarsi il più che ammirevole tentativo di Matteo Garrone con la controversa opera cinematografica “Il racconto dei racconti – Tale of Tales” che nel 2015 gli valse ben sette David di Donatello, nessuno mai è riuscito come lei a scandagliare i fondali dell’oscuro mondo fiabesco creato dal genio di Basile, così da far conoscere o riscoprire ad un mondo dormiente di spettatori quell’inedito quanto sublime irridere la strenua ricerca del ‘lieto fine’ che tanto ossessionava, ossessiona e – crediamo – sempre ossessionerà il pubblico.

Partendo da “La papara”, primo racconto della quinta giornata del Pentamerone basileo, “Re Chicchinella” ci presenta la disgraziata ultima fase dell’esistenza di Re Carlo III d’Angiò, “re di Sicilia e di Napoli, principe di Giugliano, conte d’Orleans, visconte d’Avignon e di Forcalquier, principe di Portici Bellavista, re d’Albania, principe di Valenzia e re titolare di Costantinopoli”, che, dopo essere stato colto da improvviso bisogno di ‘liberarsi corporalmente’ mentre era a caccia, decise di ripulirsi servendosi di una gallina creduta morta ma, in realtà, talmente viva da entrare nel regale deretano sino a raggiungerne le viscere, da quel momento in poi nutrendosene, come fosse un funesto e nefasto feto autogeneratosi. Gli interventi di cortigiani e medici atti a porre rimedio alla dolorosissima situazione non ottengono alcun risultato ed, invero, il Re non sembra convinto che vi sia da parte di quella che lui stesso definisce “Corte di bugiardi dove fate sempre le maschere, fatta di maldicenza, mormorazione, tradimento e furfanteria” una reale volontà di risolvere la problematica dato che il pennuto ospite deposita ogni giorno un uovo d’oro che rimette in sesto la provata economia del Regno; toccherà al Re, dunque, ridestandosi, all’alba della disillusione, dal sogno di potere accarezzato per una vita intera, concludere che la morte o, meglio, la libertà di darsi la morte è probabilmente l’unica via di fuga per liberarsi da un indecente, irrimediabile, ineluttabile, intollerabile, insopportabile destino ed, infine, spegnersi lasciandosi consumare di inedia, riconquistando, però, nell’eutanasia quale definitivo gesto rivoluzionario ed eversivo, il suo valore di essere umano e – forse – la possibilità di ricongiungersi con la propria natura primordiale, concedendosi così di non escludere il ritorno a vivere in altre vesti e pelli, se non piume, sperando in una vera rinascita che possa prescindere dalle negligenze di una sorte matrigna e dall’infirgadaggine dei suoi sudditi e della sua stessa famiglia.

La Dante, dall’alto della sua infinita fantasia visionaria, ci regala un’altra opera totale, essenziale, pregna di innumerevoli input, di innumerabili chiavi di lettura, cibo per la mente ed acqua per l’anima, flash sparati negli occhi assonnati di un pubblico che non può non restarne abbagliato, affascinato, ipnotizzato, sia che si fermi alla semplice visione, godendo della pura bellezza dei dipinti che la regista crea con il materiale corporeo a sua disposizione, sia che scelga di andare oltre, di partecipare a questo rito pagano, alla discesa negli inferi ed alla susseguente resurrezione, cosicché lo spettacolo non finisca quando cala il sipario, lasciando che lo spettatore se ne riappropri, lo conduca con sé e – anche – da questo si lasci condurre su sentieri ancora inesplorati e vergini. Fedele alla sua linea, alla sua incessante ricerca, alla sua poetica contemplativa, al suo raffinato gusto per le dotte citazioni, alla sua altissima cifra stilistica, la drammaturga sembra ribaltare la visione sofoclea dell’Antigone (“molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo”), lasciando che il ‘suo’ uomo, smarrito, inerme, vinto dalla fatica di una fuga senza via d’uscita, perso nel labirinto di un’aporia infinita, distrutto dal disagio di un’esistenza compressa nel corpo quanto nella mente fino ad annullare ogni integrità fisica e psichica, precipiti verso un baratro senza fine, verso un mondo primigenio ed arcaico, verso una indecente, irrimediabile, ineluttabile, intollerabile disumanità, sino ad una – probabile – rinascita, che sta nell’accettazione stessa di quella fallace natura.

Come ha potuto constatare il pubblico che ha affollato in ogni ordine di posto le sole due repliche del Kismet, colmo ben più del suddetto uovo di regale produzione, in questo spettacolo forse come non mai nel mondo della Dante tutti gli elementi presenti in Basile si fondono in un corpo unico, sorretti da raffinatissimi riferimenti letterari e dal suo personalissimo e riconoscibilissimo impatto scenico, in questo coadiuvata dalle magnifiche luci di Cristian Zucaro; recuperando il riferimento iconografico e, soprattutto, la sua connotazione aristocratica e popolare al tempo stesso, grazie anche ad una geniale scelta musicale, perfettamente sovrapponibile a quanto si sviluppa sulla scena, che parte da “Homo fugit velut umbra (Passacaglia della vita)”, composizione classica erroneamente attribuita a Stefano Landi (contemporaneo di Basile), e si conclude con la “Passacaglia” di Franco Battiato (contenuta nell’album Apriti sesamo del 2012) che dalla prima dichiaratamente discende, passando per l’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Georg Friedrich Händel, la Dante rende qui forse il suo più prezioso omaggio al mondo fiabesco generato dalla fervida mente dello scrittore, facendo smarrire il pubblico, grazie ad una preziosa ricerca sul linguaggio, in un labirinto semantico costruito su un dialetto partenopeo arcaico misto ad un italiano stentato, ad un francese maccheronico ed a suoni arcaici se non bestiali, che dona acutissime vette di ilarità (da antologia, in tal senso, la scena del chiacchiericcio pour parler della Corte intenta a degustare – ça va sans dire – delle madeleines), mirabilmente recuperando in chiave grottesca e buffonesca il tema caro all’autore della cura attraverso il riso, del suo effetto terapeutico nei confronti di quanti sono votati e – forse – condannati ad una inderogabile severa serietà, e trasporta l’intera osannante platea, risucchiandola in un vortice caleidoscopico di fantasiose trovate, nella sgarrupata reggia di Carlo d’Angiò, con una regia che, nella sua apparente semplicità, moltiplica l’effetto parodistico soprattutto nelle scene d’insieme, utilizzando, in assenza di veri elementi di scena se si eccettuano degli inginocchiatoi utilizzati in svariati modi, il corpo umano sino allo spasimo, salvo giungere ad un finale di assoluta, irraggiungibile, sorprendente poesia accolto con un più che palpabile moto di stupore dalla sala.

Ma “Re Chicchinella” non è solo il capolavoro della Dante, bensì si staglia come la definitiva consacrazione di Carmine Maringola quale eccelso attore, irrinunciabile alter ego della regista e suo sodale (anche nella vita privata), che, nei panni del protagonista, realizza, nonostante la prova fosse impervia, la sua performance perfetta, padrone assoluto della gergale parola e di una mimica ineguagliabile che, anche nei momenti di sfacciata briosità, permea di una impalpabile ma sempre presente malinconia, guida indiscutibile di un manipolo di eroi che rispondono al nome di Annamaria Palomba (Regina), Angelica Bifano (Principessa), Davide Mazzella e Simone Mazzella (paggi), Stephanie Taillandier (dama d’onore), Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Marta Zollet (dame di corte), Samuel Salamone (dottore), Viola Carinci e Marta Zollet (infermiere) e Odette Lodovisi (gallina), talmente bravi da rendere credibile non solo l’illusione fiabesca, ma anche la loro prestazione en travesti, bardati negli immaginosi quanto inverosimili costumi della stessa Dante, sublimi tanto nella parte più squisitamente ilare e goliardica, in cui interpretano, da sensazionali saltimbanchi, tutti i personaggi della vicenda, quanto nel finale ad altissimo contenuto emotivo, i quali andrebbero ringraziati uno ad uno non fosse altro che per aver ancora una volta reso possibile che ritrovassimo le tracce ed infine avessimo nuovamente accesso all’attraente universo dell’Artista da noi amata.
Pasquale Attolico
Foto di Masiar Pasquali
tratte dal sito del Piccolo Teatro di Milano