L’irraggiungibile scrittura di Mattia Torre al servizio dello ‘strano caso’ di Alfredo Beaumont: Valerio Mastandrea conquista il Teatro Piccinni di Bari nel tour di addio al protagonista di “Migliore”

Non capisco niente del mondo che mi circonda, figuriamoci di me che ne sono un’infima parte.” (Mattia Torre)

Se vi dice poco il nome di Mattia Torre è perché era così bravo che i suoi contenuti ti invadevano e ti trascinavano — anzi lo fanno e lo faranno sempre: loro non muoiono con lui — e non avevi tempo di alimentare alcun culto della personalità.” (Boris Sollazzo)

Quando, nel luglio 2019, un destino crudele ed invidioso ci lasciò orfani della straordinaria penna di Mattia Torre a soli 47 anni, Corrado Guzzanti ne sottolineò “la curiosità, il coraggio ed il senso dell’umorismo, rari in questo mondo, rarissimi in Italia: uno che, se adesso gli dicessi “che la terra ti sia lieve”, mi scoppierebbe a ridere in faccia e ci scriverebbe sopra un monologo”, qualità che aveva già peraltro dimostrato con “La linea verticale”, il libro autobiografico del 2017 diventato solo un anno dopo serie tv di successo con protagonista Valerio Mastandrea, in cui raccontava, servendosi di una surreale miscellanea di dramma e commedia, la sua esperienza con la malattia e con il tumore che ce lo avrebbe strappato.

Allo stesso binomio Torre / Mastandrea si deve “Migliore”, monologo teatrale del 2005 che il drammaturgo scrisse e diresse affidandolo all’attore “per raccontare la storia di una persona buona che diventa cattiva e che, nel momento in cui diventa cattiva, ha un successo sociale molto forte”; oggi, toccati i vent’anni di grande successo della pièce, sublimato nel riadattamento televisivo fortemente voluto da Paolo Sorrentino, Mastandrea, con una nuova breve tournée che ha fatto tappa con due repliche sold out al Teatro Piccinni di Bari, evento fuori programma dell’annuale Stagione di Prosa “AltriMondidel Comune di Bari e di Puglia Culture, ha voluto dare un ultimo saluto al personaggio cui tanto ha dato e da cui tanto ha ricevuto prima di annunciare che non lo interpreterà più, pur riservandosi la regia di una nuova prossima edizione.

Sono, quindi, le ultime occasioni per l’attore romano di vestire i panni di Alfredo Beaumont, un uomo mite, sottomesso, vessato, dedito, anche per mestiere, ad assistere, se non assecondare, gli altri, spesso subendone la boria, l’insolenza e la prepotenza, sino a quando, sempre a causa della sua servizievole gentilezza, sarà responsabile di un incidente che procurerà la morte ad una anziana condomina; pur assolto giudiziariamente dalla relativa accusa, Alfredo muterà comunque tutto l’approccio con il genere umano (ed animale) che gli ruota intorno, scoprendosi malvagio, cinico, prepotente e spietato con tutti, un perfetto novello Conte di Montecristo che, nell’organizzazione di una vendetta di impianto machiavellico che vedrà i suoi effetti anche, se possibile, nei confronti del suo precedente ‘io’, segue una escalation di violenza, che, a conti fatti, può essere paragonata ad una sorta di deformazione del percorso dell’eroe, della fabula, con i suoi tesori, le sue conquiste, i suoi nemici da sconfiggere, le sue “imprese” da compiere, metamorfosi che, però, inspiegabilmente gli fa toccare vette inesplorate e, fino ad allora, irraggiungibili nella scala sociale, facendolo diventare, anche agli occhi degli altri, ‘(il) migliore’.

Oltre ai ben visibili riferimenti kafkiani e, ça va sans dire, villaggiani (nel senso del meraviglioso Paolo e del suo mitico Fantozzi), non credo di essere in errore nell’affermare e sottolineare che con “Migliore” la splendida mente di Torre abbia generato il suo personale “Strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde”, l’inimitabile romanzo con cui Robert Louis Stevenson di fatto anticipò le teorie freudiane sull’inconscio; il drammaturgo romano, che pure studiò sociologia e, in tale veste, fu volontario in un campo profughi in Albania, affronta il tema dello sdoppiamento della personalità e della sempiterna lotta dicotomica tra bene e male, abbandonando le logiche del mistero e dell’orrore stevensoniane e costruendo, da par suo, un intreccio giocato soprattutto sulla pura psicologia del personaggio calata in una lucida quanto spietata e realistica osservazione sulla morale della società, servendosi, pur senza mai sottostare ad archetipi e stereotipi, di tutti gli elementi – l’ironia in primo luogo – fondanti del genere letterario di cui era, è e sempre sarà principe indiscusso. Se nel romanzo dell’epoca vittoriana il dottor Jekyll, personaggio che simboleggiava il bene, era di conseguenza anche di bella figura, mentre Hyde, essendo la personificazione del male, appariva orribile, in “Migliore” Torre, con felice intuizione, ribalta questo scenario e, con lui, anche i significati ad esso collegati, rimescolandone gli assunti teorici e di fatto facendosi portatore di una malcelata critica al mito moderno della bellezza e della cura del corpo; il “mostro” che emerge dopo la trasformazione è un uomo arrogante, prepotente e odioso, ma al contempo estremamente affascinante e perfettamente a suo agio in una società superficiale e attenta quasi esclusivamente all’apparenza, tanto quanto il primordiale Alberto, con la sua goffaggine e timidezza, era sincero ed affettuoso nonché fragile nel suo cercare di sentirsi integrato in un mondo che pareva escluderlo, cosicché il passaggio dal ‘primo al secondo stadio’ può essere inteso come simbolo del disastro della classe media, quella stessa che, privata dell’accesso all’ascensore sociale, ormai pare sparita del tutto: se non si vede nessuna via d’uscita, se si è soli, se si è indifesi di fronte all’angheria che colpisce gli ultimi, allora la ribellione appare inevitabile, sia socialmente che – forse ancor più – singolarmente.

Grazie alla scrittura illuminata di Torre, la duplicità del personaggio non solo si rivela metafora acuta sulla mostruosità del conformismo che porta allo svelamento di una natura sopita, respingente e suadente al tempo stesso, con cui pare inevitabile prima o poi fare i conti e imparare a convivere, ma diventa magnifica ed inarrivabile satira collettiva, chirurgica autopsia di un corpo sociale morente, corredata da un’inventiva comica straordinaria, che dà modo agli spettatori di godere di tutta la poliedrica arte recitativa di Mastandrea che sa spaziare dal surreale al grottesco, e da una notevolissima capacità di giocare con “la parola che deve far vedere tutto, solo attraverso il racconto” che l’autore, sin dalle prime prove nello stretto corridoio di casa sua, utilizzò come cifra dell’intero lavoro, costringendo l’attore, che inizialmente ne fu contrariato, ad una più che “rigida ossatura coreografica del personaggio”, lasciandolo in pratica immobile, bardato nel tipico abbigliamento da impiegato, sul palco per tutta la durata dello spettacolo, coadiuvato solo dall’ottimo disegno luci nonché dalla efficacissima musica originale di Giuliano Taviani. Eppure, in questo forzato contesto che gli consente, in pratica, il solo uso della voce, Mastandrea realizza la sua interpretazione perfetta, inappuntabile, tutta in divenire, divertente ma sempre intensa, finanche commovente quando, sugli applausi finali, indica il tavolino a cui nessuno è seduto, certamente citando il grande autore assente: in altre parole, Valerio è Alberto, due entità in uno, antropica e mostruosa, romantica e sfrontata, reale e metaforica, e noi, per indotta osmosi, siamo lui, spietati nemici di noi stessi che, stanchi di elevare il nostro esistenziale quotidiano inascoltato grido di dolore, valutiamo la possibilità di abbandonarci, di tanto in tanto, alle lusinghe del nostro subdolo demoniaco umanissimo coinquilino, salvo poi riconoscerlo così suggestivo da non volerlo più abbandonare.

Pasquale Attolico
Foto di Arianna Fraccon e Anna Carmelingo
dal sito della Produzione

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.