
“Händel comprende gli effetti speciali molto meglio di noi, e con essi colpisce come una saetta.” (Wolfgang Amadeus Mozart)
“Solo un grande compositore come Händel – o qualcuno di altrettanto grande, se fosse possibile trovarlo – può anche essere, spesso, facilmente e trionfalmente banale. Così come ci vuole – o piuttosto ci vorrebbe – un compositore all’altezza di Händel per scrivere un altro coro dell’“Alleluia”. Solo chi è capace di tanto potrà trattare con facilità anche situazioni banali come fa Händel. Händel è così grande e così semplice che solo un musicista di professione può essere incapace di capirlo.” (Samuel Butler)

Ci sono sere che riconciliano con il mondo, riaccendono le antiche passioni, fermano il tempo e danno immediatamente la precisa ed inconfutabile certezza di essere parte di un evento assolutamente unico ed irripetibile; è infatti innegabile che taluni concerti segnino a tal punto la nostra anima da non tardare a definirli miracolosi raggi di luce nella opaca quotidianità del nostro piccolo universo di amanti della musica: sono eventi eccezionali a commento dei quali non può che ripetersi semplicemente ed orgogliosamente “io c’ero”. La presenza nel cartellone della Stagione concertistica 2025 della Fondazione Teatro Petruzzelli dell’ensemble Les Musiciens du Louvre, peraltro per la prima volta alle nostre latitudini, diretto da quel genio assoluto che risponde al nome di Marc Minkowski nell’esecuzione del Concerto grosso Opus 3 n.1-6 di Georg Friedrich Händel era già di per sé sinonimo di successo, ma la realtà ha superato ogni più rosea previsione.

Come giustamente sottolineato da Dinko Fabris nel dettagliato libretto di sala, nel 1734, al culmine della carriera operistica di Händel, l’editore londinese John Walsh ‘pensò bene’ di pubblicare i Concerti Grossi Opus 3, di fatto realizzando una furbesca operazione di collage di sei brani tratti da precedenti opere del compositore tedesco naturalizzato inglese, assemblati, sotto il già fuorviante titolo che certamente si riferiva a concerti per archi “alla maniera italiana”, in modo disorganico, utilizzando fonti diverse e scritte per una gamma ampia di strumenti, e, soprattutto, senza il benestare del Maestro, probabilmente intervenuto con alcune revisioni in occasione della prima ristampa. Non vi è dubbio che tale produzione risentisse dell’ammirazione di Händel per il collega Arcangelo Corelli, che aveva avuto modo di conoscere durante il suo soggiorno romano e la cui frequentazione aveva già dato i suoi straordinari frutti nelle pagine strumentali di capolavori come gli Oratori, consegnandoci un’Opera che appare protesa a generare una immediatezza emotiva nel pubblico, certamente figlia di una composizione di getto, mirante – al contrario di quanto muoveva l’opera di Bach – più all’effetto teatrale che al pathos sotterraneo, densa di ‘barocchismi’ tra cui si celano simulati gesti improvvisatori ricchi di fascinazioni melodiche e di attrazioni ritmiche.

Grazie alla somma maestria di Minkowski a capo della Formazione da lui stesso fondata nel 1982 abbiamo finalmente potuto ascoltare i Concerti come se fossero un’unica grande opera di incantevole bellezza in cui tutte le composizioni venivano rese in modo indicibilmente ispirato, così da produrre, pur con lo stile discontinuo determinato dall’originario assemblatore, una imprevedibile e vivida panoplia di colori ed una caleidoscopica abbondanza di temi, con gli strumenti che, incitati da una passione palpabile che li proiettava in una tenzone quasi agonisticamente atletica, sembravano voler travalicare i propri limiti sino a raggiungere il puro virtuosismo; grazie ad un’orchestrazione brillante, maestosa, stimolante, eccellente, il foltissimo pubblico del Petruzzelli è stato attraversato ed inebriato dalla creazione händeliana nonché conquistato, se non contagiato, da quella gioia di ‘vivere la musica’ che traspariva tutta nelle espressioni e nei gesti dei musicisti e del loro direttore, in quell’incessante muoversi, saltare, danzare, cantare persino, con la musica che scorreva fluida, riempiva le orecchie, le tempie, le vene, il cuore, l’anima, in un movimento incessante in cui era il corpo a venirne colpito prima ancora dei sensi, in un crescendo di emozioni, difficilmente riportabili su carta.

L’interminabile applauso della platea osannante, con notevole presenza di giovani, era il degno finale di una performance davvero di altissimo livello, magnifica, in più tratti addirittura perfetta, suggellata dalla concessione di due bis, vale a dire uno splendido quanto emozionante passaggio da “Les Boréades” dell’amato Jean-Philippe Rameau (“il Verdi francese” dice il direttore) preceduto da una misteriosa composizione presentata da Minkowski come la ritrovata partitura dedicata a due donne da un musicista scandinavo, poi rivelatasi come la famosissima “Gimme, gimme, gimme”, hit pop dal vago sapore concertistico degli immarcescibili Abba; soprattutto quest’ultima scelta è stata, se possibile, la definitiva prova di un sublime modo di intendere l’Arte, che, come detto, viene senza preclusioni profusa, come pura estrinsecazione di un moto di gioia, come un dono, una carezza, un attimo divino e fuggente catturato e condiviso con gli astanti, cui non si poteva far altro che rispondere con un meritatissimo tripudio che aveva il sapore di una vera, totale ed incondizionata acclamazione.
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography
per gentile concessione della Fondazione