
Si comunica non solo con le parole.
Il gesto, lo sguardo, il silenzio stesso, parlano e a volte urlano.
Lo scorrere del tempo è una costante della vita, ma solo noi esseri umani ne abbiamo coscienza e, per questo, paura.
L’angoscia è una deriva per gemmazione e si incomincia a ballare sull’orlo del baratro.
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde è un capolavoro senza tempo, un romanzo che “fa tremare i polsi” perché parla alla nostra stessa radice e nessuno può onestamente dire, leggendolo, di non aver mai provato almeno una delle miriadi di sfumature dell’animo umano che ci sputa in faccia come davanti ad uno specchio nei nostri giorni peggiori. E’ parte di noi. Per questo ci affascina e ci inorridisce; per questo lo riconosciamo così familiare eppure altro da noi. Il nuovo allestimento e riscrittura di Annig Raimondi andato in scena in Prima assoluta al Pacta Salone di Milano, perfettamente inserito nella sequenza della rassegna di DonneTeatroDiritti 2025, è felicemente possibile proprio per il suo “passeggiare“ in un territorio profondamente umano.
Inutile negarlo, la bellezza è un passaporto che apre ogni frontiera e la nostra società non fa eccezione né ha trovato ancora un antidoto al nostro latente narcisismo. Arrendiamoci, è impastato con le fibre della nostra anima. Da sempre, per fare arrivare un messaggio la strada più diretta è enfatizzare i toni, estremizzare i concetti, renderli degli assoluti. Dorian si trasforma così da “Fanciullo/a puro/a nella sua bellezza” (Sola Bellezza, superficiale, vuota e innocente) in Narciso stesso, la patologia di una sfumatura dell’animo umano.
L’operazione della Raimondi suscita, con il solo titolo, molte aspettative e almeno una domanda: perchè scegliere un’ attrice, Anna Germani, per interpretare il bellissimo Dorian?
Non è certo una domanda geniale la mia, ma non può essere un caso e, certamente, non passa inosservata. Mi rifiuto di credere sia stata solo una scelta di comodo per stupire. Quindi, pur amando la randomicità della vita, azzardo un’ipotesi e un’ interpretazione. Da un punto di vista statistico la sindrome narcisistica è prevalentemente maschile (i dati scientifici pubblicati parlano di 70% contro 30% – e vabbè, noi avremo altri primati! -). Scarterei questa ipotesi. Dunque, mi sposto sul terreno del messaggio e qui inizio a pensare che il teatro delle origini, leggi il teatro greco, non prevedeva attrici donne e le parti femminili erano interpretate da uomini.
I personaggi erano maschere, archetipi, assoluti. La bellezza non ha genere e così le angosce e le paure dell’essere umano. Così, giocando sui generi e sollevando un tema contemporaneo ed aperto, Amig Raimondi attualizza il capolavoro di Oscar Wilde infondendogli nuova linfa e nuovi spunti di riflessione. Questa interpretazione mi soddisfa e la condivido tanto da apprezzare lo svolgere della trama senza più notare questo dettaglio. L’animo umano non ha genere. Inoltre, questa scelta sposta subito l’attenzione dalla trama al messaggio, assolutizzandolo.
Il ritratto di Dorian Gray credo sia uno dei romanzi più letti, visti al cinema e commentati fin dalle scuole medie, quindi non penso di dovervi tediare con un riassunto. Ciò che vorrei è invece riportare l’attenzione, ancora, sulla sua ingombrante contemporaneità. Il romanzo, così come la riscrittura di Annig Raimondi, corre su quattro binari paralleli perché facce dell’unico indivisibile animo umano. Come in una vivisezione, le parti si scindono a mostrare il loro essere facce dell’unico prisma persona. Il bello assoluto, Dorian (Anna Germani), Il buono assoluto Basil (Stefano Tirantello) e l’invidioso maligno assoluto Harry Wotton (Francesco Errico). E il quarto protagonista? L’ opera d’arte. Il dipinto, certamente, ma per estensione la stessa Arte. Anche lei ha una sua parte, un suo ruolo; il problema è proprio decidere quale. Fino a che punto l’Arte è specchio della vita?; E’ soggetta agli stessi principi e dettami dell’essere sociale? Non è forse A-morale nel suo porsi alla ricerca della conoscenza, nel suo tratteggiare la realtà presente e immaginare quella futura? Nella ferita che apre si coagulano la possibilità della vita e il baratro del Nulla. Per questo l’opera di Oscar Wilde è anche un romanzo sull’Arte.

Dorian – Anna Germani è insieme oggetto d’arte, nel suo essere ritratto, e oggetto di desiderio nel suo essere persona. E’ questo che Lord Wotton invidia e odia. Vorrebbe essere lui e insieme possederlo come un’ opera d’arte. La maledizione del collezionista! Dorian, intanto, nel suo essere un’opera d’arte scopre la tridimensionalità. La profondità, il limite e, come il Taglio di Lucio Fontana, varca la soglia. Arte e opera d’Arte.
Basil – Stefano Tirantello è la “maschera” della bontà, dell’amore oblativo. La purezza ingenua e insieme rapace dell’artista che è spinto verso il bello perché vuole in realtà possedere l’Assoluto, l’Eterno. La presunzione innocente e ingenua del bimbo che vuole Tutto. La sua condanna è che, a volte, la Vita, beffarda e sempre ironica, ci accontenta! La sua morte è inevitabile rivelandosi la pietra tombale di Dorian, l’ultimo ormeggio da sciogliere prima del mare aperto dell’ignoto.
Lord Wotton – Francesco Errico è il Luis Cyphre di cinematografica memoria (ricordate “Angel Heart – Ascensore per l’inferno”?), oggi l’influencer tentatore. Ti mostra il peccato senza compierlo, ti sfida a passare il limite senza compromettersi (senza mai togliere i guanti bianchi per non sporcarsi le mani), tocca le corde più profonde e i nervi più scoperti solleticando curiosità e brivido del proibito senza mai essere diretto e smascherabile. Interpretazione convincente tanto risulta viscido e insieme intellettualmente intrigante.
Dorian è certo un narcisista patologico, ma anche un “anti-eroe” nella sua disperata ricerca della conoscenza di se stesso, del piacere, del limite, delle profondità del suo abisso e della libertà scevra da ogni legame morale, sociale, affettivo. Pericoloso, discutibile, insano, ma certo uno spingersi oltre le Colonne d’Ercole dell’animo umano. In un certo senso è la rappresentazione del Libero arbitrio, quando questo significa immergersi negli abissi più oscuri invece che innalzarsi alle stelle. “Ciascuno porta dentro di sé il cielo e l’inferno” ci ricorda una più che convincente Dorian. E si è condannati a scegliere, aggiungerei. Il suo narcisismo è una condanna, una prigione così come la sua bellezza. Troppo perfetta, tanto da non essere umana, da non essere gestibile da una forza non titanica. La perfezione non è propria della vita e, come un fuoco, più ci si avvicina più si rischia di bruciarsi. Per questo l’opera di Oscar Wilde è tanto affascinante e senza tempo come tutti i capolavori. I livelli di lettura e gli spunti di riflessione sembrano miracolosamente infiniti come le matriosche.
E quelle ‘presenze senza volto’ che interrompono il flusso della narrazione come tentativi di risveglio? Un contemporaneo coro greco. A lui spetta indurci a riflettere sui temi universali e accompagnare il destino dell’eroe, come nella più classica delle tradizioni e, per essere un chiaro cameo, tutta la rappresentazione parte proprio con il coro che racconta il mito tragico dell’amore di Eco per il bellissimo Narciso, perché l’essere umano cambia abiti, cambia società e valori, ma non cambia la sua essenza, impasto di fango e luce. La finzione scenica si rompe giusto per un attimo di “scossa di ammonimento” per poi rimmergerci nel fiume della storia e correre veloci come la corrente della vita. Ci mostrano il baratro e il suo orlo e tutto sembra inevitabile. Il finale tragico ci pare “giusto, quasi una punizione dovuta per tanto ardire e arroganza”, quasi una catarsi per noi che solo così, ammirando l’abisso da lontano, da dietro una pagina di libro o dalle poltroncine di una platea, ci sentiamo al sicuro e ci illudiamo che “No, non parla proprio a noi, non si riferisce alla nostra vita”.
Ultima nota la musica di Maurizio Pisati come elemento imprescindibile del racconto. Accompagna questo viaggio nelle emozioni e ci conduce, inconsapevoli, oltre la soglia dell’Inferno. La cavalcata verso la morte morale e spirituale di Dorian e il tumulto delle emozioni sempre meno gestibili non si potrebbero mai concepire nel silenzio. Le sottolineature sonore delle ferite dell’anima – ritratto ricordano il crackle della tela, l’opera d’arte che è l’anima stessa si ferisce mortalmente sotto i colpi del libero arbitrio. Eppure un sentimento di umana solidarietà e di pìetas per questo piccolo essere umano alle prese con una vita più forte e grandiosa di lui mi accompagna fuori da teatro.
Manuela Composti
Foto di Elisabetta Miracoli
per gentile concessione del Pacta Salone