Quando una vita disordinata, claustrofobica e precaria si abbandona ad una forza autodistruttiva che non dilania ma consuma dall’interno l’esistenza: la coinvolgente prova d’attore di Loris Leoci alle prese con “Il Contrabbasso” di Patrick Süskind sul palco del Teatro Abeliano di Bari

Se c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso. Si può quasi dire che l’orchestra comincia a esistere soltanto quando c’è un contrabbasso. Ci sono orchestre senza primo violino, senza fiati, senza timpani e trombe, senza tutto. Ma non senza contrabbasso. Quello che voglio stabilire, è che il contrabbasso è di gran lunga lo strumento più importante dell’orchestra. Anche se non sembra.

Comincia così, con un’affermazione piena di orgoglio, Il Contrabbasso, di Patrick Süskind, opera del 1981, grande successo fin dal debutto e tradotto in ben 27 lingue. Una coinvolgente prova d’attore sul palco del Teatro Abeliano per Loris Leoci, prodotto da UNO &Trio, in scena il 28 marzo scorso.

Punto di partenza di questo monologo è un testo complesso, che propone e sovrappone continuamente diversi livelli di lettura, individuali e collettivi, letterali e simbolici. Un testo ironico e amaro, drammatico ma con sprazzi di comicità. Privo di una vera e propria trama, trascina lo spettatore in un turbinio di emozioni, legandolo ai sentimenti del musicista del quale non conosciamo il nome (e che dunque resta anonimo, come anonima e incolore è tutta la sua esistenza). In un crescendo delirante, l’uomo ci svela tutta la sua fragilità, la profonda solitudine, l’umanità rabbiosa ma debole, incapace di vivere e interagire col mondo esterno, lasciato fuori dalla stanza quasi completamente insonorizzata, dove il “quasi” è la fessura che lascia entrare solo la sofferenza, l’inadeguatezza, l’incapacità di confrontarsi con una realtà rumorosa e sempre più difficile da decifrare. Insieme alla stanza silenziosa, metafora di una condizione esistenziale di ripiegamento su se stesso e di solitudine, altrettanto forte è il parallelismo tra la struttura dell’orchestra (nella quale spiccano direttore, primi violini, cantanti solisti) e la gerarchia della società. Il contrabbasso, nonostante la preziosità del suo ruolo (ahimè sconosciuto ai più), è relegato nelle ultime file, e la sua “profondità” diventa invisibilità. Dopo di lui solo il timpano che però, proprio per la sua posizione privilegiata, riesce comunque a farsi notare.

A poche ore dalla rappresentazione de L’Oro del Reno di Wagner, il contrabbassista di terza fila dell’Orchestra di stato di Berlino (che si definisce come un impiegato statale, anche se conserva in sè l’orgogliosa consapevolezza di essere un musicista) racconta il tormentato rapporto con il suo strumento, accudito e detestato, che troneggia imponente, fermo e immobile al centro della stanza, in un contrasto evidente con il movimento frenetico dell’uomo. Dopo una iniziale dissertazione tecnico-musicale, e grazie anche a qualche birra di troppo, l’uomo comincia a raccontare se stesso tracciando un bilancio ironicamente amaro (e a tratti disperato e tragico) della propria vita e delle frustrazioni davanti alle quali non sa reagire, se non con una sterile rabbia, facendo del contrabbasso l’immagine e la causa dei suoi fallimenti. Scelto durante l’infanzia per reazione alle difficili dinamiche familiari, è diventato nel tempo prigione e zavorra, ma anche icona delle sue inadeguatezze e, da ultimo, feticcio del corpo desiderato di Sarah, giovane mezzosoprano di cui è segretamente innamorato e alla quale non ha mai rivolto la parola. L’uomo la segue da lontano, si consuma di gelosia quando la vede accettare gli inviti a cena di cantanti solisti o direttori d’orchestra, ma resta incapace di compiere un passo verso di lei, di avvicinarla. Un crescente delirio lo porta ad elaborare un piano estremo: quella sera, nel teatro pieno e alla presenza delle autorità, nel silenzio assoluto che precede l’inizio del concerto, dalla sua postazione griderà con forza il nome di Sarah. Sarà di certo la fine del suo lavoro e della pur remota possibilità di essere da lei considerato (e tantomeno amato), ma sarà anche l’unico momento in cui finalmente emergerà dalle buie retrovie dell’orchestra per diventare “solista”, protagonista della propria vita. Un gesto straordinario per un uomo che non riesce a vivere l’ordinario. Un kamikaze, più che un eroe, perché l’esito gli sarà sicuramente fatale, trasformando l’attuale tensione con il mondo in una voragine, una frattura drammatica e insanabile. Süskind, che fa svolgere il monologo in tempo reale, opta per un finale aperto, lasciando che sia lo spettatore a scegliere se l’uomo, che nel frattempo si è vestito, ha spento la luce e si è avviato verso il teatro, porrà in essere il clamoroso gesto o ingoierà ancora una volta desideri, sogni, speranze.

I disperati scatti d’orgoglio del musicista, la sua debolezza, la profonda umanità, suscitano nello spettatore rabbia ma anche tenerezza, in una complessità di emozioni che Loris Leoci riesce a veicolare con corpo e voce. Lo spettacolo ha un’architettura che poggia interamente sulle spalle dell’attore, solo in scena, su un palco disordinato, claustrofobico e precario come la vita del protagonista. Qui i sentimenti, forti e intensi, anche se gridati, sono quasi compressi da una violenza che il protagonista esercita su se stesso, una forza autodistruttiva che non dilania ma consuma dall’interno la sua esistenza. Leoci, che firma anche la regia, riesce a trasmettere in modo convincente da un lato la dolorosa consapevolezza della propria condizione, dall’altro l’incapacità di reagire, mostrando la complessità di un personaggio che ha molteplici sfaccettature e la ricchezza di una storia che, si diceva in apertura, rivela numerosi piani di lettura, intrecciando l’arte e la vita.

Imma Covino

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