Gianni Di Gregorio, sceneggiatore di lunga esperienza, nella sua breve e intensa vita di regista ha diretto cinque film.
Il primo nel 2011 e l’ultimo, il nostro, nel 2022. In media uno ogni due anni.
Tutti sono uniti da un filo sottile, ovvero la vita dello stesso autore, regista e attore principale dei suoi film.
Lo abbiamo visto prima figlio con mamma a carico e la necessità di sbarcare il lunario perché pieno di debiti nel “Pranzo di Ferragosto“. Poi, in “Gianni e le donne“, svagato play boy, un po’ all’amatriciana, con una baby pensione a inseguire lo svago senza riuscire mai a pensare veramente a se stesso in termini reali. Oppure nel riscatto delle persone umili e pazienti, in “Buoni a nulla“, o ancora pensionato che, con due compagni, cerca un luogo, “Lontano lontano“, in cui vivere serenamente senza problemi economici e, più in generale, senza problemi. (ultima e sempre magnifica prova d’attore di Ennio Fantastichini).
Per approdare, come nel suo più recente “Astolfo“, ad un personaggio che ritrova i suoi poco amati luoghi d’infanzia violentati dalla cupidigia del parroco e del sindaco. Al tempo stesso, però, scoprirà nuovi ed improbabili amici che, insieme a lui, occupano il suo palazzo. Troppo grande, troppo vuoto e troppo ricco di storia per un pensionato solo, con pochi soldi e in cerca di serenità.
Il destino tuttavia, nelle belle storie, ha in serbo il riscatto dei miti che senza cinismo e con infantile innocenza possono raggiungere, se non la felicità, almeno la gioia profonda di condividere un pezzo di vita con una persona amata.
Tutti i film di Gianni hanno un tratto in comune: la gentilezza mite, ma non arrendevole, di un uomo che guarda la vita con gli occhi di un bambino, quieto eppure non ingenuo. Il tutto accompagnato da una recitazione diretta, senza sovrastrutture in dialoghi che sembrano – e sono – uguali a quelli che sentiamo tutti i giorni nelle nostre strade.
La scelta dei personaggi è netta: i cattivi sono cattivi e i buoni buoni; non ci sono sottigliezze o artifici. Gli stereotipi, soprattutto nei cattivi, sono disegnati con precisione. Il prete è untuoso e ipocrita. Il sindaco è vanesio e avido (anche ladro). La banda degli spostati, i suoi coinquilini, è fatta di gente, certo al limite della legge, e anche oltre, ma in fondo buoni e comunque inoffensivi. Poveri cristi, non senza qualità, che si accontentano di poco perché sono sempre stati abituati ad essere l’ultimo anello della catena della società. Però tutto con brio e la convinzione che la vita può essere vissuta da leoni come nelle bande della più schietta tradizione della commedia all’italiana di Monicelli o del primo Scola.
Del nostro Gianni si è detto, la banda composta da Gigio Morra, Alberto Testone e Mauro Lamatia si muove compatta sulla scena, con naturalezza e simpatia, così come gli spiantati del paese che circondano di affetto lo sconcertato Gianni. Alfonso Sant’Agata, il barone, cugino ed improbabile playboy alla strenua ricerca di una donna ricca che possa pagargli i tanti debiti, è divertente nella sua provinciale trombonaggine. Sempre splendida Stefania Sandrelli che riesce a donarci una figura femminile innamorata come, forse, solo dopo una certa età si riesce veramente ad essere.
L’autore dedica una particolare attenzione alla lingua e alla cadenza di ciascun personaggio. La sua, un romanesco dolce e lento, una lingua quotidiana per un professore in pensione. Quella della banda più articolata. Il laziale dei due paesani o il campano del vagabondo cuoco. Così come il linguaggio del prete rapace, lento e sospettoso, o la cadenza del sempre ottimo Simone Colombari nel ruolo del sindaco imbroglione.
Infine, più che una colonna sonora articolata c’è un sottofondo a base di strumenti che sembrano segnare un’andatura umoristica.
Insomma, un film gentile, con un finale che ci prepara per la prossima simpatica avventura del nostro Gianni.
Andate a vederlo nei cinema.
Marco Preverin