Azzerare le distanze tra l’arte e la società in un’operazione di salvifica pacificazione: “Le Rane”, la produzione Elsinor / Teatri di Bari tratta da Aristofane con la regia di Marco Cacciola, trascina nel suo viaggio il pubblico del Teatro Kismet di Bari

“Sono sceso quaggiù a cercare la poesia, perché il nostro paese possa salvarsi.” (Βάτραχοι, vv 1418, 405 a.C.)

Contro il potere dello scontato, dell’idea dominante, il potere dell’abitudine, si accampi il miracolo dell’imprevisto, dell’immaginazione e del gratuito. Venga la forza della Poesia. E che sia pericolosa! Che spaventi! Perchè il terrore, tutto ciò che ci riporta a terra, ci ricordi che solo immaginando l’impossibile sarà possibile trasformare l’inaccettabile.” (Le Rane, 2022 d.C.)

Da tempo oramai, come anche avviene nel ciclo di rappresentazioni di Siracusa, lo spettatore è abituato all’“attualizzazione” delle tragedie e commedie della letteratura greca. Questo, perché sicuramente e lodevolmente facendo ricorso ad un abile esercizio pedagogico, si vuol avvicinare il pubblico, magari anche non attrezzato con una specifica formazione, al messaggio sempre incredibilmente vivo ed attuale di queste opere.

Sicuramente questo è stato l’intento del progetto di Marco Cacciola con “Le Rane” tratte da Aristofane, una produzione Elsinor Centro di produzione teatrale / Teatri di Bari / Solares Fondazione delle Arti andata in scena al Teatro Kismet di Bari nell’ambito della Stagione teatrale 2022.23 ‘Sconfinamenti’ curata da Teresa Ludovico.

Abbiamo assistito ad un allestimento inedito, a tratti anche difficile da comprendere fino in fondo, e forse anche un po’ spiazzante. Tuttavia, il gruppo di attori professionisti, con Giorgia Favoti, Matteo Ippolito, Lucia Limonta, Claudia Marsicano e Francesco Rina, e del “Coro” di cittadini assemblato per l’occasione, ben rende quello che voleva essere il messaggio fondante dell’opera di Aristofane; il pubblico vive e partecipa, con momenti di grande coinvolgimento costellati da sprazzi di umorismo, al viaggio–discesa, sospeso ed onirico, del dio Dioniso e del suo servo Xantia verso gli inferi alla ricerca del Poeta, della Poesia.

Nel testo di Aristofane, la ricerca è volta a riportare sulla terra Euripide, che però non verrà infine prescelto, dopo aver affrontato una “competizione” con Dioniso nelle vesti di Giudice per trovare chi potesse salvare Atene, devastata dalla guerra del Peloponneso. Nell’allestimento-progetto di Cacciola volutamente non si dà una personificazione al Poeta, il quale riemerge dall’Ade dopo danze, riti, visioni-allucinazioni, nei quali i morti si mescolano ai vivi senza distinzione, dove i nomi e le identità vengono scanditi e ricordati.

Perché il fine di Aristofane, quanto mai leggibile anche ai giorni nostri, è quello di riconciliare e il mondo in pericolo con l’arte, con la poesia, in chiave di pacificazione, per recuperare il dialogo con la società, con la polis, frastornata, ora come allora, da violenza e conflitti. La collettività-polis è sapientemente coinvolta nell’opera con la scelta del Coro di cittadini tratti dalla normalità e non dall’Arte, ed è significativamente da quel Coro che, poi, la Poesia riemerge.
L’effetto, quindi, è quello di azzerare la distanza dal palcoscenico, dall’avventura di Dioniso, del suo servo e degli altri personaggi che si alternano, ma sempre in chiaro supporto alle due figure principali; mirabile, in tal senso, l’inizio della discesa attraverso il passaggio di Dioniso nella palude dell’Acheronte con il verso greco de Le Rane, avvincente nella sua resa musicale.

Nella palude ci siamo tutti. E siamo lì tutti insieme.
Il palcoscenico, l’arte diventa vita quando realizza la fusione con il suo pubblico, quando il palco è vissuto da quella porzione di umanità variamente rappresentata che da un lato rivela la sua identità, il suo nome, dall’altro si sperde nella collettività indistinta. E’ così certamente che l’arte e il teatro realizzano pienamente la funzione salvifica come pensata, cantata da Le Rane e rappresentata da Aristofane – in occasione delle Lenee del 405 a.c. – e può radicarsi nel vissuto dello spettatore, che lascia il teatro–mondo forse un po’ stranito, anche a causa del forte epilogo finale, muto, dove plasticamente ci si vede dentro una teca, un acquario, mentre la natura continua comunque a compiere il suo ciclo.

Lilli Arbore
Foto dalla pagina della Compagnia

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.