Chiara da Assisi, almeno a me, è sempre sembrata una figura minore del movimento Francescano.
L’altra parte di Francesco, il giullare di Dio, e più precisamente una sua seguace. La descrizione della storia, anche quella che ha oggettivamente cambiato il corso degli eventi o comunque mostrato come ci sia una vera alternativa alla violenza o alla politica della guerra, è stata sempre esclusivamente al maschile, con le donne riservate allo sfondo o, al massimo, alla copia dell’originale maschile.
Se poi parliamo della storia della Chiesa, ancora oggi declinata con prevalenza assoluta del genere maschile, le sante altro non sono che donne integrate nello schema piramidale della struttura ai cui vertici ci sono sempre e comunque i maschi. Agli uomini la possibilità di predicare, girare per il mondo e diffondere il Vangelo. Alle donne il più mite e “angelico” compito di pregare, di educare i piccoli e di preservare, in clausura e lontananza dal mondo, l’immagine della vergine intoccabile e pura.
In questo modello rigido e, all’epoca, di grande decadenza di costumi, l’arrivo di Francesco da Assisi e dei suoi compagni, senza denaro, senza gerarchia, senza padroni se non la loro fede, dissesta lo schema della società, anche quel civile. Come Siddharta non può essere inquadrato in alcuna categoria preesistente e affascina, tra gli altri, la giovane Chiara. Scappa di notte e decide di vivere in libertà le sue scelte non all’ombra ma insieme alla componente maschile del gruppo.
Fare l’ennesimo film su una Santa, benché molto amata come Santa Chiara, è stato oggettivamente un rischio da parte della regista Susanna Nicchiarelli. Ci ha voluto raccontare la storia di una donna che ha deciso di sposare una scelta di vita contro le convenzioni imperanti in quei tempi, avendo deciso di non sottomettersi al dominio altrui, fosse padre o società o anche chiesa, pur di seguire il proprio ideale di uguaglianza e fede. La scelta narrativa è stata quella di mostrare la vita di Chiara come una serie di quadri scenici, di piccole storie nella storia, tratte principalmente dai miracoli di cui la Santa è stata ritenuta autrice. Il tutto accompagnato da una visione gioiosa degli avvenimenti, anche i più difficili, testimoniati dal sorriso e intervallati da balli e musiche così presenti da far sembrare il racconto un piccolo musical (alcune scene ricordano finanche “Hair“).
La colonna sonora, quasi tutta rappresentata dai pezzi suonati dall’Anonima Frottolisti, dona un tocco di lievità, mentre il pezzo in coda di Cosmo coinvolge in un finale emotivamente interessante.
Personalmente ho molto apprezzato la scelta della lingua. La regista ha voluto utilizzare il volgare dell’epoca in maniera non didascalica, ma restituendogli l’uso quotidiano, anche quando diventa del tutto incomprensibile (ci sono i sottotitoli) per lo smozzicare le parole, come spesso accade nella parlata di tutti i giorni. La fotografia e le scene sono povere, come si addice allo stile dei personaggi ed ai luoghi.
Gli attori sono tutti bravi e circondano Margherita Mazzucco (Chiara) con affetto, anche interpretativo. La vicinanza con Andrea Carpenzano (Francesco) si manifesta in quasi tutti i dialoghi dai quali traspare l’affetto e la sintonia fra i due personaggi. Carlotta Natoli e Paola Tiziana Cruciani sono bravissime. Caratteriste si, ma di altissimo livello. Paolo Bruglia dà un’interpretazione matura nella raffigurazione di un uomo ingenuo, ma proprio per questo più innocente di tanti altri, anche suoi confratelli. Di Luigi Locascio, prima Cardinale e poi Papa, non si può dire più nulla che non sia già stato detto o scritto: ormai fa parte di quella schiera di attori che mancano un ruolo solo se lo vogliono veramente. Un particolare, per renderlo più odioso (come se non bastassero le frasi dei dialoghi) il suono che fa mentre mangia: dà veramente fastidio.
Nell’insieme un bel film, senza smagliature importanti, che disegna la figura di una Santa in chiave più hippy che pop.
Nei cinema.
Marco Preverin