Philip K. Dick è considerato uno dei più importanti e innovativi autori di fantascienza e, più in generale, uno dei più grandi scrittori della letteratura statunitense del secondo dopoguerra. Le sue opere sono caratterizzate da un’indagine costante sui temi della realtà, della vita quotidiana e di come si potrebbe sviluppare. Si interessano della simulazione, del falso e più in generale di quel nodo di idee e problematiche noto come postmoderno o tardo capitalismo. O, meglio, esaminano l’intensità dell’incidenza sulle nostre vite dei processi di marketing e di sviluppo economico capitalistico. Le sue opere, paradossali per certi versi, sono improntate ad un profondo pessimismo insieme al perenne confronto con il diverso ed in particolare a quello tra esseri umani e non umani: alieni, creature soprannaturali e androidi, più spesso letti come l’altra parte di noi.
Nell’ambito dei temi ricorrenti di Dick, che sono vari e vanno dalla molteplicità dei mondi alla guerra passando per gli androidi e la psichiatria, sono stati scelti, per la serie Electric Dreams, dieci racconti. Non ci troviamo di fronte ad una serie tv in senso stretto perchè gli episodi non sono uniti da elementi sequenziali, le puntate tipiche di un racconto seriale, ma rappresentano dieci modi di confrontarsi con la propria instabilità e l’essere al di fuori degli schemi preconcetti non solo o non tanto sociali quanto mentali. In ciascuno dei racconti, adattati anche a scelte e tecnologie più moderne di quelle pensate da Dick negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, senza per questo stravolgere il senso delle novelle, i personaggi si muovono in un futuro anomalo e sostanzialmente con un’umanità sfiduciata, priva, nella maggior parte, di punti di riferimento. Alcune storie avranno il lieto fine, anche se non in senso classico, altre con un finale tutt’altro che lieto.
Commentare tutti gli episodi renderebbe questa piccola recensione troppo lunga e noiosa, quindi, miei pochi e cari lettori, mi limiterò a segnalare quelli che più mi sono piaciuti e, pur senza escludere gli altri, i più significativi, secondo me, sono tre.
Il primo della serie, Real Life, in cui a una poliziotta, segnata da un’azione sfortunata, viene regalato dalla compagna un visore sensoriale che le consente di vivere un’altra vita nel metaverso, tanto reale da non riuscire più a distinguere la vita vera da quella irreale, o meglio solo mentale. Il regista Jeffrey Reiner ci conduce nei meandri dell’immaginazione e dello scollamento dalla realtà in maniera così completa da confondere anche lo spettatore attento. Il finale racchiude la difficoltà di concepire se stessi nel dolore e nella difficoltà di vivere. Badate, non è triste ma è oggettivamente riflessivo e drammatico. Terence Howard (Andrea Lavagnino) e Anna Paquin (Selvaggia Quattrini), ci rendono una recitazione molto intensa, senza momenti di pausa interpretativa, che si fa seguire per tutta la durata dell’episodio (circa un’ora), con forte coinvolgimento emotivo.
L’episodio numero 4, Crazy Diamond, in cui uno Steve Buscemi in grande forma, doppiato mirabilmente da Luca Del Fabbro, interpreta un impiegato di una grande azienda che produce “coscienze quantistiche” che consentiranno alla fascinosa e sensuale androide Jill, interpretata da Sidse Babett Knudsen, doppiata da Alessandra Korompay, di prolungare la sua vita ormai tecnicamente al termine. “Crazy Diamond” ha, dopo la descrizione di un mondo in disfacimento, come la costa che crolla ogni giorno in mare, uno svolgimento noir in stile anni Cinquanta. Riguarda l’atrofia e l’inevitabilità della morte e la lotta d ciascuno per evitarla. “Crazy Diamond” pone i suoi temi in modo denso prima di essere coinvolto nella sua trama thriller noir in stile anni Cinquanta.
L’ultimo episodio della serie Kill All Others, diretto da Dee Rees, è il più politico di tutti. In un mondo ipertecnologico in cui la pubblicità è un mostro di persuasione e prostituzione, viene raccontata la storia, non poi così inverosimile, della candidata alla Presidenza che, durante una trasmissione televisiva semplicemente invita a “uccidere l’altro”. Sarà Philbert Noyce, interpretato da Mel Rodriguez (doppiato da Riccardi Scarafoni), operaio di una fabbrica con solo tre dipendenti, ad ascoltare il messaggio della candidata e ad essere l’unico a stupirsi e scandalizzarsi. Tutti gli altri invece assimilano questa scarica di odio destinata ad “altri” non meglio precisati. Questo darà la stura ad episodi di violenza collettiva verso persone che, per una qualsiasi ragione, possono apparire come “altro” (vi ricorda nulla?). Pur senza avere interpreti particolarmente brillanti (la recitazione è molto televisiva), è l’episodio che colpisce di più per la sua carica civile. Ovviamente, come quasi tutti i film di questa serie, non finirà bene.
Le musiche dell’intera serie sono molto intrecciate, si potrebbe dire, con la natura degli episodi e dei racconti di Dick.
La serie originale è del 2017, 2018 in Italia, ma non mostra i segni del tempo.
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Marco Preverin