Quando, nel 1985, Jan Jonshon, giovane attore svedese, andò a trovare il direttore di un carcere di massima sicurezza per mettere in scena “Aspettando Godot” con i carcerati come attori, probabilmente non pensava affatto di cominciare un’avventura che incredibilmente lo avrebbe portato ad incontrare lo stesso Beckett, ricevendone i complimenti.
Da quella esperienza, vera, è stato tratto il primo docu-film e da esso il film “Le triomphe” e oggi il suo remake italiano “Grazie Ragazzi“.
Tutti i narratori della storia di Jan Jonshon e dei suoi compagni di avventura, i registi e gli attori, ci mettono di fronte ad una situazione imbarazzante. Cinque colpevoli. Cinque uomini che hanno commesso reati importanti. Assassini, ladri, spacciatori, che riescono a lasciare, per il tempo della recitazione e della vita in comune, il vuoto della cattiveria che li ha spinti a compiere le azioni terribili per le quali sono in carcere.
Non sono personaggi “carini” e non hanno motivazioni nobili, non pensano al prossimo e neanche al futuro, eppure riescono a coinvolgersi in un gioco, quello teatrale, in cui “tutto è finto ma niente è falso”, ed i sentimenti meno che mai. Per un film di questo tipo, il documentario incrocia una storia, ricreandola in una sceneggiatura che adatta la realtà alla finzione e, nel nostro caso, la Svezia all’Italia, senza però alterarne i contenuti.
Pur nella diversità dei luoghi e delle facce, temo non dei reati, il nostro regista, Riccardo Milani, autore insieme a Michele Astori della sceneggiatura, non crea voli pindarici e arzigogoli nel racconto ma, per un certo verso, si limita a descrivere la vicenda, pur con i necessari adattamenti geografici e culturali, così come avvenuta, perché è essa stessa romanzo di vita, con le sue, della storia, indispensabili contraddizioni.
I nostri cinque si dibattono fra due mondi che sono oggettivamente contrapposti. Quello della segregazione e dell’attesa, vissuta nel carcere, e quello dell’inaspettata ed insperata libertà, sempre più ampia per effetto del successo. I due mondi convivono negli attori e nelle guardie che li devono accompagnare, senza mai riuscire a trovare un equilibrio. Si scontrano perennemente fino all’epilogo, che genera ulteriore tristezza e dolore ma, al tempo stesso, produce un ulteriore bellissimo momento teatrale.
E’ un film di attori, di situazioni, di persone che si parlano e, nella folle sceneggiatura della vicenda reale, ci parlano.
I protagonisti di questa vicenda sono come una vera squadra o, per meglio dire, come un gruppo di attori guidati, con mano sempre via via più sicura da un ottimo Antonio Albanese, che, nel ruolo dell’attore che vive di espedienti e diventa regista della messa in scena, riesce a dare il meglio di sé, rendendo un’interpretazione completa anche nel difficile monologo ricco di primissimi piani. Tra gli altri attori, si distingue Vinicio Marchioni nel ruolo di un delinquente dal cuore non tenero, con la tendenza alla prevaricazione violenta, che però riesce a mostrare le sue fragilità e, anche se per poco, a tornare disponibile.
Giacomo Ferrara (Aziz), Giorgio Montanini (Mignolo), Andrea Lattanzi (Damiano), esprimono i loro personaggi in maniera compiuta. Non c’è, ma non lo prevede la sceneggiatura, un approfondimento del personaggio, però coinvolgono, e certamente non sfigurano rispetto ai più blasonati compagni di lavoro. Silenzioso e divertente il personaggio di Bogdan Iordachioiu. Ottima, come sempre, Sonia Bergamasco, nel ruolo della direttrice del carcere. Istrionesco e sempre più mattatore Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di un attore specialista in cialtroneria ed ego smisurato ma vero uomo di spettacolo. Infine, Nicola Rignanese, attore non sufficientemente valorizzato, che qui rende il personaggio con pochissimi dialoghi e tante eloquenti espressioni del viso.
In un film come questo non poteva mancare – e per fortuna non manca – il grande Blasco.
Andate a vederlo al cinema, anche uno piccolo, di periferia; se siete così maldestri da perderlo, aspettate che arrivi su qualche piattaforma e godetevelo.
Marco Preverin