“«Dio mio, che musica nervosa! È proprio come se tanti scarafaggi ti scorrazzassero nei pantaloni», gemette disperato mio padre quando gliene pestai qualche parte al pianoforte, pochi mesi prima che morisse. Non aveva tutti i torti. Sebbene l’avessi sconsigliata, Cosima Wagner insistette una volta a Berlino che le suonassi singoli brani; dopo la scena finale osservò: «Questa è pura pazzia! Lei è per l’esotico, Siegfried per il popolare!». Bum!” (Richard Strauss)
“Strauss è il primo per genialità, il primo nel saper dimostrare con la pratica che un artista con la sua arte può dominare la vita e il mondo!”(Paul Bekker)
Pur riconoscendone tutti gli stigmi del capolavoro assoluto, una non del tutto abbandonata scuola di pensiero della critica musicale mondiale ha da sempre relegato “Salomè (Salome)”, il dramma lirico in un atto e un balletto che Richard Strauss compose nel 1905 su libretto basato sulla traduzione in tedesco di Hedwig Lachmann dell’omonimo dramma scritto nel 1891 in francese da Oscar Wilde, non solo ad una raffinata quanto ferma e polemica dichiarazione d’ostilità concettuale progressista contro il tardo romanticismo e l’estetismo decadente, bensì ad una calcolata quanto – volutamente – malcelata operazione di provocazione nei confronti degli eccessi e dei lascivi costumi del mondo borghese con cui l’ancor giovane compositore era costretto a confrontarsi. Alla lecita domanda se una tale chiave di lettura abbia ancora senso, oggi che l’Opera viene universalmente indicata, al pari di “Tosca” di Puccini e di “Pelléas et Mélisande” di Debussy, come pietra angolare delle architetture della lirica moderna, pare voler rispondere Damiano Michieletto con la “sua” Salomè, commissionatagli dal Teatro alla Scala di Milano e giunta a Bari come secondo pregiato appuntamento del cartellone della annuale Stagione Lirica della Fondazione Teatro Petruzzelli, costruendo una regia (qui ripresa da Tamara Heimbrockche) che ha dalla sua una incontestabile genialità che giunge ad elevarsi a personalissima indagine metafisica, scevra dalla sterile oleografia cui siamo stati abituati, per sollevare una denuncia sociale, un atto di condanna contro la brutalità ottusa e barbarica, che è anche della nostra civiltà, che si esterna nel drammaticamente attuale sopruso cinico e sadico del più infimo e putrido maschilismo e del suo opprimente quanto insussistente senso di superiorità.
Nella trasposizione di Michieletto, Salomè incarna carnefice e vittima in una sola schizofrenica personalità, frutto di un’esistenza traviata, deviata, deragliata per i soprusi sessuali subiti a causa della lascività dello zio / patrigno, con buona pace della madre consenziente, se non finanche esortante, sin dalla più tenera età; in un accostamento tutt’altro che improprio con Amleto, la Principessa giudaica vive nel ricordo dell’amato padre che – pare di comprendere – crede di aver ritrovato, in quanto a rigore e levatura morale ma anche per bellezza statuaria, nel malcapitato profeta Giovanni, di cui pure determinerà la morte dopo essere stata rifiutata, salvo poi comprenderne la grandezza e, nuovamente, ricollegarlo alla figura paterna, in un corto circuito emotivo che la porterà a confonderne i teschi nella dichiarazione d’amore finale che precederà il suo suicidio.
Il regista, forte di una – giustamente riconosciuta – altissima cifra visionaria, incastona la storia della sua riluttante eroina, grazie alle superbe quanto sublimi scene di Paolo Fantin (riprese da Francesca Amato), in una terrazza / antro che, lungi dal mostrare vie di fuga, appare irrimediabilmente claustrofobica, su cui aleggiano ininterrottamente gli angeli della morte che custodiscono il Sacro Graal, il cui contenuto sarà infine versato sulla stessa Salomè, anch’essa vittima sacrificale, al pari di Giovanni, della cupidigia e dell’odio dell’uomo; qui tutto accade, in un florilegio di simbolismi di sicuro impatto emotivo che vanno dall’ascensione dalle segrete di Giovanni in mezzo alle fiamme al suo cospargere il palcoscenico di terra di cui la stessa protagonista finirà per ricoprirsi, dalla luna nera (ma anche lugubre pendolo o minacciosamente incombente wrecking ball) che sovrasterà la scena sino al sorgere della testa divinizzata del Santo (esplicito richiamo al dipinto di Gustave Moreau “L’apparizione”) all’enorme – tanto da ricoprire tutto il palco del Petruzzelli – vestito nuziale imbevuto di sangue, simbolo della violenta deflorazione subita per mano dell’odiato ripugnante zio.
Eppure, in mezzo a tanta sontuosa magnificenza, ben supportata dai costumi di Carla Teti (ripresi da Francesca Sartorio), le coreografie di Thomas Wihelm (riprese da Erika Rombaldoni) ed il disegno luci di Alessandro Carletti, qualcosa pareva stridere, qualche modernismo cui si poteva senza fatica rinunciare, come, ad esempio, la angosciante presenza di una Salomè bambina abusata dall’odiato zio / patrigno, spettro e proiezione mentale della principessa adulta, espediente già visto – anche nella “Turandot” di De Simone – che – ora come allora – richiamava alla mente uno stantio cliché di certo cinema horror ormai d’antan, o anche l’inutile spogliarello interrotto dei ‘diplomatici’ Ebrei e, poi, dello stesso Re Erode, il quale resta in mutande davanti alla nipote / figliastra assetata del sangue del Profeta: se nudo doveva essere, a significare l’arrendersi dell’uomo davanti alla giovane concubina ma anche a dichiararne l’incestuosa trivialità ed il motivo della concessione dell’orrendo omicidio, allora avrebbe dovuto spingersi sino ad un animalesco nudo integrale. Nella medesima scia simbologica atta a spiegare il torbido rapporto tra zio e nipote, di più sicuro effetto, pur nella sua estrema originalità e definitivo tradimento della primigenia creatura wildiana, appare invece la famosissima Danza dei Sette Veli, che si traduce in una orgiastica violenza carnale nei confronti di Salomè da parte delle sette proiezioni del patrigno e si conclude col vestito bianco e cordoni rosso sangue di cui si è detto, forse l’estrema concessione sessuale accordata ad Erode il quale, spinto da morbosa riconoscenza, non avrebbe potuto negarle la testa di Giovanni.
Al netto della certa fascinazione della straripante regia, la musica di Strauss riesce comunque ad elevarsi, colpendo nel segno grazie ad una memorabile performance dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli diretta da Hartmut Haenchen cui si deve la perfetta estrinsecazione dell’innovativa invenzione musicale-drammatica dalla strumentazione lussureggiante e dall’onnivora ossessione descrittiva e decorativa in funzione di una scrittura prevalentemente cromatica che il compositore tedesco sperimentò compiutamente per la prima volta unendola alla sua innata poetica; l’ensemble barese riesce a rendere perfettamente la fantasmagorica opulenza dello spartito, il suo respiro nervoso, ansioso, caotico, querulo, stridente, aggressivo, inquieto ed inquietante, che pare giungere a negare la rilevanza del canto, ma anche le sottigliezze, gli artifici, le risorse espressive che catturano l’anima prima ancora dell’orecchio. Grazie ai maestri esecutori ed alla sapiente mano di Haenchen, giunge sino alla platea in tutta la sua completezza la geniale costruzione musicale concepita da Strauss, interamente poggiata, con un linguaggio che oggi potremmo definire da colonna sonora cinematografica, su temi collegati ai personaggi, alle loro passioni, ai loro sogni e ai loro incubi, che sortiscono dalla buca del Politeama barese incontrandosi e scontrandosi, assoggettandosi e sovrastandosi, sfuggendosi e sovrapponendosi, con i tempi dettati da un dinamismo sinfonico-contrappuntistico di cui raramente è dato godere.
Pur esaltando la prodigiosa invenzione strumentale, l’edizione del Petruzzelli conquista anche per ricchezza, originalità e varietà delle forme vocali, che il cast prescelto rende con un’energia espressiva di innegabile efficacia, esaltando gli impulsi psichici oscuri, l’individualismo esasperatamente maniacale e il distacco – se non il rigetto – totale dalla realtà dei personaggi di Strauss e, prima di lui, di Wilde. Divina Jane Archibald nei panni della protagonista, con una voce malleabilmente sicura nei passaggi più impervi ed una ipnotica presenza scenica, ma bravissimi anche tutti gli altri, a partire da Samuel Youn (Jochanaan), Joel Prieto (Narraboth), Andreas Conrad (Erode) ed Elena Gabouri (Erodiade), per poi continuare con Natalia Gavrilan (un paggio di Erodiade), Gregory Bonfatti (primo ebreo), Saverio Fiore (secondo ebreo), Patrik Vogel (terzo ebreo), Andrea Schifaudo (quarto ebreo), Horst Lamnek (quinto ebreo), William Hernandez (primo nazareno), Alessandro Fantoni (secondo nazareno), Alexander Milev (primo soldato), In Sung Sim (secondo soldato), Alberto Comes (un uomo della Cappadocia) e Vincenzo Mandarino (uno schiavo): applausi copiosi e meritatissimi per tutti.
Pasquale Attolico
Fotografie: Clarissa Lapolla photography