Normalmente quando vado al cinema mi informo sul film che vedrò, spesso leggendo la trama nei mille siti che ci raccontano già prima quello che andremo a vedere o, meglio, che riportano quello che le case di produzione indicano come elementi cardine dei film distribuiti nelle sale e sulle piattaforme.
Questa volta avevo un’idea estremamente vaga del film e di quello che avrei potuto incontrare nel sentiero da percorrere insieme a tutti coloro che partecipano alla gestione di un’opera cinematografica.
Ho affrontato la sala in cui si proiettava “Non così vicino“, desolatamente vuota (eravamo in quattro), in un giovedì sera di festa, per cercare un film che non mi angosciasse e che potesse comunque farmi pensare un po’ (escludo i cartoni animati viventi del mondo Marvel in cui, salvo eccezioni, l’esasperata esagerazione domina). La visione, lo dico subito, mi ha particolarmente soddisfatto.
Il film entra subito nel vivo. Non lascia spazio agli spiegoni che spesso nei film hollywoodiani consentono allo spettatore, considerato uno sprovveduto di intelligenza medio bassa, di capire l’antefatto. Troppo difficile lasciarsi andare alla rappresentazione dei sentimenti per ciò che esprimono. Senza la Storia dove si va? Qui no, l’uso dei flash back consente di afferrare i momenti intimi ed i ricordi del protagonista, soprattutto del suo amore per la donna della sua vita ed il legame con lei.
La scelta dello sceneggiatore David Magee, che ha lavorato sul libro di Frederik Backman (En man som heter Ove, in svedese letteralmente Un uomo chiamato Ove), e del regista Marc Foster di realizzare un’opera che non è un duetto solo perché la necessità scenica, si potrebbe dire produttiva, lo impone. La figura del protagonista è prepotente sulla scena e rappresenta il perno di ogni momento del film. Anche quando non è presente, è lui l’oggetto delle conversazioni degli altri, non proprio e non sempre gentili.
Felice la scelta, che in qualche misura appartiene ormai alla maschera Tom Hanks, di utilizzare una qualche caratteristica fisica in un aspetto essenziale, cardine, del personaggio rappresentato. Lascio a voi individuare quale. Come ormai in alcuni grandi attori, è la sua personalità a dominare il carattere rappresentato. In altre parole, la fusione tra maschera in scena e maschera reale dell’attore è piena. Le espressioni sono talmente coerenti con quello che si rappresenta da diventare vita vera. Il nostro Otto, arrabbiato e infelice, noioso e maniaco del rispetto delle regole, che fa la ronda tutte le mattine per vedere se nel suo vialetto è tutto in ordine, ha la faccia e le espressioni dell’immenso Tom. E’ lui, in quelle scene, ad essere arrabbiato e infelice, noioso e maniaco. Insomma, non recita.
Si confronta con una splendida Mariana Treviño, Marisol. Una giovane mamma messicana forte e intraprendente, che con la sua ferma e costante dolcezza, il suo carattere solare e determinato, riporterà le cose a posto. Di fronte a un mostro sacro, Mariana non solo non sfigura ma tiene botta al mito con un’interpretazione mai fuori dalle righe. Combina il giusto tasso di ironia e intensità e coinvolge in pieno lo spettatore. E’ doppiata da un’ottima Marta Filippi, con una voce giovane e fresca, che riesce a giocare in maniera naturale sui vari registri dell’italiano e dello spagnolo senza salti.
La fotografia, di Matthias Koenigswieser, è sbiancata con toni molto tenui, si potrebbe dire anonimi, quasi a rappresentare anche visivamente un ambiente, case e persone, della periferia anonima e senza slanci. Case tutte uguali e box auto infilati in riga come soldatini con la stessa divisa. Nessuna differenza o personalizzazione.
Un film ben riuscito che, su binari classici e senza scossoni di sorta, ci accompagna tranquillamente ma senza annoiare fino al naturale finale.
Marco Preverin