“Nel momento in cui dubiti di poter volare, perdi per sempre la facoltà di farlo. Il motivo per cui gli uccelli, a differenza degli esseri umani, sono in grado di volare, risiede nella loro fede incrollabile, perché avere fede vuol dire avere le ali.” (Sir James Matthew Barrie)
Nella vita di ogni essere umano, in generale, e degli artisti, in particolare, ci sono salti, balzi, slanci che si distinguono da tutti quelli precedenti, che rendono clamorosamente evidente una metamorfosi, una trasformazione, che possono identificarsi in fondamentali passaggi verso una visione “altra”, dissimile, da angolazioni e prospettive diverse, forse addirittura discrepante rispetto al passato, tanto da autorizzare a scindere quell’esistenza in un prima ed un dopo: sono, di norma, gli stessi salti che consentono di spiccare quel volo che, in cuor nostro, sappiamo appartenerci da sempre, grazie al quale potremo ricongiungerci alla nostra più ancestrale, recondita e celata natura di novelli Icaro, a cui, seppur non fosse concesso di raggiungere il sole, perlomeno si consentirebbe di staccarsi da terra.
“In volo” di Michele Perrugginiè senza dubbio uno dei salti musicali più arditi e stupefacenti che ci sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, il disco che – sinceramente – non ti aspetti dal batterista che tutti abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare per le sue sempre illuminanti incursioni tanto nel rock, soprattutto progressive, quanto nel jazz, anche se, a ben vedere, i semi di questa nuova rigogliosa pianta potevano già individuarsi in quell’“Attraverso la nebbia” con cui, sempre per la Abeat Records, si affacciò per la prima volta sul mercato discografico quattro anni or sono; ma se il precedente lavoro si presentava come una summa delle esperienze musicali del compositore barese, qui, grazie ad un eccellente lavoro di scrittura che non tarderemmo a definire introspettivo, affiora assolutamente incontrovertibile il solco tracciato, l’incisione, la frattura con il passato, le profonde fenditure che, presto, si trasformano in spiragli che emanano luce accecante.
Il pianoforte di Mirko Signorile, la viola di Teresa Laera, il violoncello di Luciano Tarantino, i violini di Serena Soccoia e di Leo Gadaleta (che ha arrangiato tutti gli archi) ed il contrabbasso di Giorgio Vendola, cui si aggiunge il sempre magico clarinetto di Gabriele Mirabassi, si inseriscono perfettamente in quella che può considerarsi a tutti gli effetti un’opera finita e risolta, pregna di un sound sognante e armonioso ma mai scontato e ripetitivo, un profluvio di note che, distillate direttamente dall’ambrosia della miglior melodia, sembrano essere sgorgate dall’anima del loro creatore con il chiaro intento di raggiungere le sensibilità a lei affini; un concept album da ascoltare e riascoltare per riuscire a scoprire e catturare ogni angolo segreto delle tredici composizioni strumentali che formano la tracklist, per ognuna delle quali lo stesso compositore, con l’aiuto di Stefano di Lauro, ha ritenuto di dover approntare dei brevi commenti, tutti arricchiti dalle sognanti e rarefatte illustrazioni di Daniela Ficarella.
Ecco: più che un invito all’ascolto di un ottimo prodotto discografico, quello di Perruggini sembra essere uno stimolo, un incitamento, un’esortazione ad entrare nel suo mondo musicale e poetico, ma, anche e soprattutto, umano, ad essere parte indissolubile di quell’agognato volo che, pur non sapendo dire se avrà altre tappe, ci ha già conquistati, amabilmente costringendoci a tornare al primordiale ricordo che abbiamo di noi stessi, di come – per dirla con Madeleine L’Engle – forse siamo stati pensati per essere.
Pasquale Attolico