Le sensazioni cominciano a stratificarsi, nel lungo e ricco programma del BiG, e gli scambi emotivi attivano un’intelligenza collettiva poco ascoltata, ma così vivace e espressiva…
BiG sta per Bari International Gender Festival, festival transfemminista di cinema, performance, musica, danza e dialoghi, arrivato alla nona edizione, diretto da Miki Gorizia e Tita Tummillo, promosso e organizzato dalla Cooperativa sociale AL.I.C.E., sostenuto dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), Regione Puglia, PACT Teatro Pubblico Pugliese a valere sul Fondo Speciale Cultura e Patrimonio Culturale L.R. 40/2016 art. 15 comma 3, Comune di Bari, Ufficio Tecnico – Tavolo Tecnico LGBTQI del Comune di Bari, Centro Antidiscriminazioni del Comune di Bari, Medihospes, Centro Antiviolenza – Assessorato al Welfare del Comune di Bari, Ambasciata Olandese e Pro Helvetia, in collaborazione con Fondazione H.E.A.R.T.H., Università degli Studi di Bari «Aldo Moro» – Dipartimento ForPsiCOm, Teatri Di Bari, Teatro Kismet e Fondazione Apulia Film Commission.
Questa settimana mi sono recata in uno spazio che contavo di visitare da molto tempo, la galleria “Voga Art project”, non distante dai luoghi in cui sono cresciuta, in strade dov’è inaspettato, ma non impossibile, che l’arte fiorisca, ma si sa che come diceva Oscar Wilde, “gli esseri umani credono più nell’impossibile, che nell’improbabile”, ciascun* con la sua fede. È qui, tra i palazzi di quello che io chiamo “Libertà ulteriore”, un quartiere nel quartiere, che un piccolo collettivo di artist* ha stabilito la propria casa creativa. È qui che Ivana Pia Lorusso tiene la sua performance “Body shaping”.
Il presupposto della performance è il corpo nudo di Lorusso, preannunciato da uno scritto in cui invita a strappare via dallo sguardo la visione sessualizzata di quel suo corpo, in una performance che lei stessa definisce assieme “un rito sacrificale e di metamorfosi allo stesso tempo”, in uno scritto/disclaimer che il pubblico trova sulla sedia: aiutandosi con bobine di nero e lucido nastro isolante, Lorusso avvolge le sue membra in stretti giri, bene attenta a non lasciare spazi di pelle nuda. Dapprima i piedi e le gambe, per poi procedere con la pelvi, l’addome, il busto, e infine le mani e le braccia. Il risultato è una creatura inedita, metà tela vinilizzata, metà umana. Quella metà umana è però libera dall’essere considerata un corpo sessuale, o stretto nelle spire della furia misogina. Aggiungerei come ulteriore spunto che è anche libera di essere considerata come un essere riproduttivo. Il rito è ancora più significativo se si considerano le reference estetiche: il kinbaku, l’arte del bondage erotico giapponese, o, sempre giapponesi, i costumi zentai. Lorusso, pur annichilendo la sua pelle come nella pratica zentai, glorifica, a differenza di esso, la propria libertà.
Manco a dirlo, il tema è tristemente attuale, attuale in quanto assieme profetico e narrativo, per i condizionamenti cui il corpo femminile viene sottoposto fino alla morte, uccidendo, oltre al corpo, i sogni, le aspirazioni, la determinazione esistenziale della donna.
Oltre alla performance, Lorusso custodisce fino al 2 dicembre (sempre al Voga, su appuntamento), la deliziosa mostra “My hairy daydream”, una collezione di opere a tecnica multipla avente a tema centrale i peli, come mezzo di emancipazione delle donne da un’altra costrizione strisciante: quella che ci vorrebbe lisce, diverse, per poi utilizzare questo carico estetico ed emotivo per ritenerci esseri inferiori.
Beatrice Zippo
Photo credit pagine Facebook Ivana Pia Lorusso e VOGA