A cosa servono i libri che compro da quando sono bambina? Quelli che ho lasciato sui treni, nelle stanze degli hotel, nei bar, sugli aerei? A cosa servono i libri che messo in fila sugli scaffali delle mie molteplici case e quelli che ora occupano il mio comodino, il divano, la scrivania, finanche il pianale della scarpiera, e quelli che tra qualche giorno andrò a prendere da casa dei miei genitori e riempiranno la bella libreria angolare dei primi del Novecento di questa casa che abito piena d’amore?
A cosa serve la letteratura?
Ve lo dico subito: serve a ridere e, molto più spesso, a piangere. Nelle ore della prima serata di Liberfestival, seduta sulla comoda poltroncina rossa del Teatro Mercadante di Altamura, ho capito qual è la forza che stamattina mi ha portata da Nicola (il mio libraio di fiducia) ad ordinare l’ennesimo libro, che a sua volta (il libro, non Nicola) mi pone un’altra domanda “Perché essere felice quando puoi essere normale?” Dal palco ce lo ha chiesto anche Nicola Lagioia (a cosa serve la letteratura, non se volessimo essere felici o normali) la sera del quattro gennaio del duemila ventiquattro e, nonostante la sua lezione sia stata quanto di più illuminante io abbia ascoltato negli ultimi mesi, chi ha dato la risposta più esatta a questa domanda e più vera è stato Pablo Trincia, alla fine della sua lettura dedicata a Truman Capote.
Nicola Lagioia con la sua lezione sull’arte di raccontare storie attraverso la letteratura, mi ha trascinata in una trincea gelida, di notte, accanto ad Ungaretti e al suo compagno con la bocca digrignata volta al plenilunio, poi abbiamo fatto una capriola nel Neolitico e nel frattempo abbiamo chiesto a Nabokov “QUANDO nasce la letteratura?” Vladimir ci ha risposto «La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando “Al lupo, al lupo”: è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò “Al lupo, al lupo” senza avere nessun lupo alle calcagna. È del tutto incidentale che il poverino per aver mentito troppo spesso alla fine sia stato divorato da un lupo in carne e ossa. Il punto importante è che tra il lupo della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante: quell’intermediario, quel prisma, è l’arte della letteratura».
Allora la letteratura è menzogna? La letteratura è una menzogna dichiarata ci dice Lagioia, (a differenza del potere che – spesso – usa la menzogna non dichiarata allo scopo di persuadere) ma è una menzogna talmente menzognera che mentre sta mentendo inciampa in alcune verità assolute, pur mentendo su cose estremamente pratiche. La letteratura e la poesia raccontano cose pratiche, non astrazioni (il ragazzino del Neolitico HA CONOSCIUTO IL LUPO, sa di cosa parla, ma ci racconta una bugia dicendo che quel lupo, quello che lui conosce, non un altro, lo ha rincorso affamato).
Fango sangue e merda circondano Ungaretti mentre scrive “Un’intera nottata/Buttato vicino/A un compagno/Massacrato/Con la bocca/Digrignata/Volta al plenilunio/Con la congestione/Delle sue mani/Penetrata/Nel mio silenzio/Ho scritto/Lettere piene d’amore/Non sono mai stato/Tanto/Attaccato alla vita” e in mezzo all’esperienza più stupida e inutile dell’uomo – la guerra – Ungaretti inciampa nella vita. La letteratura non impedisce che si facciano le guerre, conclude Nicola Lagioia, ma è anche grazie a lei se, nonostante le guerre, ci sentiamo raffratellati, se ci riconosciamo come esseri umani, se non ci sentiamo giudicati nel nostro essere ‘legni storti’. Ma attenzione, redarguisce dal palco raccontando cosa gli disse Calasso: “Diventiamo migliori mentre leggiamo, ma nel momento prima e in quello appena successivo alla lettura, torniamo ad essere i cretini di sempre”.
Fine del primo appuntamento, applausi, usciamo perché il prossimo incontro sarà tra un’ora, e poi torniamo ancora nelle nostre comode poltroncine. Prima di ogni incontro salgono sul palco due rappresentanti dell’associazione Liber Festival che organizza questo festival da sei anni, la coppia salita sul palco prima di Nicola Lagioia chiede che la città di Altamura abbia finalmente dei presìdi culturali permanenti, spazi in cui le cose possono accadere, che finalmente il Comune doni nuovi libri alle biblioteche scolastiche e di comunità; è allora nella mancanza che nasce l’esigenza e la volontà di rendere un posto, un posto migliore, rifletto.
Prima della lettura di Pablo Trincia un’altra coppia sale sul proscenio e resto folgorata quando dicono che l’organizzazione del festival è tutto uno “spargimento di cuore”: applausi. Mi viene in mente Majakovskji.
Si spengono le luci e sul palco sale Pablo Trincia con il suo giubbotto di pelle.
Se Nicola Lagioia è il compagno di classe che ho sognato per tutte le scuole superiori: sorridente, intelligente, simpatico, colto, generoso quando ti fa copiare il compito di latino, Pablo Trincia è sicuramente il rappresentante d’istituto dell’ultimo anno: di bella presenza, caustico, intelligente ma tenebroso, un po’ capopopolo, un po’ professore di fisica. E infatti ci dice subito che per raccontare bene una storia bisogna essere “feticisti del dettaglio” e che di questa estrema cura al dettaglio è fatto il libro che sta per leggerci: A sangue freddo di Truman Capote, che – puntualizza, appunto – si legge Capoti.
Inizia a salire la tensione, Trincia – lui solo illuminato in tutto il teatro che resta al buio – ci spiega che il vero lavoro del narratore è quello di cogliere i dettagli, sono i piccoli dettagli che costruiscono le grandi storie. E ci dice che questo è il libro che legge quando vuole ricordarsi di come si racconta il mondo, e che sono vent’anni che fa il mestiere che fa, cioè raccontare storie. E che è sempre lui, A sangue freddo, a indicargli la strada per fare bene quello che fa da vent’anni.
Capote ha redatto 8000 pagine di appunti per scrivere un libro di circa 400 pagine, ci ha lavorato per sei anni, si è trasferito da New York in Kansas per seguire le indagini e conoscere gli assassini, per scrivere un libro fatto di particolari, freddo e spietato come solo la banalità del male può essere. Eppure in tutte queste parole, Capote non disumanizza gli assassini, non li giudica spiega Trincia: la letteratura, aveva detto Lagioia quasi due ore fa, non giudica ma illumina le nostre zone più buie.
Il buio si fa sempre più denso in teatro mentre Trincia legge e racconta e parla e io affondo nella poltroncina, stretta tra una signora che dorme con la testa piegata in avanti (inquietante, devo ammettere) e un signore che non sbatte mai le palpebre (altrettanto inquietante), e intanto Dick e Perry entrano in casa Clutter e iniziano a mettere in pratica il loro piano efferato e Trincia legge, si alza, si siede, si toglie la giacca, resta sul palco con una t-shirt a maniche corte, dettagli, dettagli, dettagli, …io penso che tra poco sverrò di paura e raccapriccio. E poi, all’improvviso, Pablo Trincia scoppia a piangere.
Commosso, esausto, vittima della banalità del male anche lui. Come me, come tutti quelli che lo stavano ascoltando.
Ma come, Pablo Trincia, tu.
Tu che mi hai fatto cacare sotto mentre ascoltavo Veleno, tu che mi hai fatto piangere mentre ascoltavo le voci dei sopravvissuti della Concordia, tu che – maledetto – non mi hai fatto dormire per tre notti mentre di giorno ascoltavo la voce di Danilo Restivo che telefonava ai suoi genitori. Tu. Adesso. Piangi.
Ecco a cosa serve la letteratura, a scavare dentro di noi per provare a rendere meno profonde le trincee che ci dividono dagli altri.
Simona Irene Simone
Foto dalla pagina Facebook della rassegna