Kay Hensel, scrittore e drammaturgo tedesco (Amburgo, 1965) porta in scena in “Quale droga fa per me? Una conferenza” il proprio viaggio nel mondo delle droghe. È un’esplorazione lucida delle sostanze e dei loro effetti immediati e collaterali sui corpi e sulle menti. Il richiamo al genere della conferenza sottolinea un intento descrittivo, quasi didascalico, libero da giudizi legati alla morale. Il contesto è quello del cosiddetto “uso consapevole” che in qualche modo viene associato ad una sorta di padronanza, come se tale consapevolezza consentisse il dominio sulla sostanza e la capacità di gestirne gli effetti senza soccombere alla dipendenza.
La “conferenziera” è Hanna che, nel piglio iniziale con cui si rivolge al pubblico, ponendo domande e proponendo esercizi e piccoli esperimenti, ricorda quasi un teleimbonitore. Diretta e provocatoria, Hanna è una casalinga, moglie trascurata di un marito assente e madre affaticata di un bambino fragile, che conduce un’esistenza protetta, ma nello stesso tempo rinchiusa e opprimente. Il suo incontro con l’ecstasy, casuale ma in qualche modo cercato, per poi passare in rassegna cocaina, eroina, LSD, è il tentativo inconfessato di uscire da una vita grigia per entrare nel mondo colorato delle droghe. Non si fa trascinare dagli eventi, non si lascia sopraffare, o almeno sente di governare le cose attraverso lo studio, illuminata dalle massime di Seneca, nume tutelare nel suo incerto andare. Si è documentata Hanna, e di ogni sostanza spiega e racconta. Il linguaggio e il suo ritmo cambiano a seconda che parli sotto l’effetto di una o dell’altra. I sentimenti che la animano la portano ora a sciogliersi di tenerezza per il suo bambino vittima di bullismo, ora a non saperlo neanche abbracciare. Così col marito, amato o orco, evocato o subìto. La provocazione di Hanna, la sua apparente sicurezza, sono in realtà una maschera che nasconde un vuoto, una mancanza d’amore. È una donna che si aggrappa ad un surrogato di felicità che la faccia sentire almeno temporaneamente viva. Si sente, così, padrona del suo agire e arbitro del suo destino, ma il tempo e le esperienze diranno il progressivo sgretolarsi del mondo “psichedelico” in cui si è rifugiata.
Stella Addario, sola sul palcoscenico dell’AncheCinema di Bari, indossa con particolare passione il testo secco e graffiante di Key Hensel, dando voce e cuore al personaggio di Hanna, riuscendo ad esprimere il suo brivido interiore. La regia di Marinella Anaclerio, capace di esaltare l’individualità attoriale, ma nello stesso tempo attenta e meticolosa, cuce su di lei un abito convincente e coerente. Ne viene fuori una interpretazione intensa, che esplora certezze e contraddizioni, e ci restituisce una donna che nel corso del racconto svela a noi, ma soprattutto a se stessa, tutta la sua fragilità, il senso di inadeguatezza, la prigione che la vita e lei stessa hanno costruito. In un crescendo di esperienze, la sicurezza diventa smarrimento, la sfrontatezza scoperta dolorosa della propria infelicità. Se Hanna aveva pensato di “osare” per uscire dal tunnel di una esistenza grigia, in realtà ha semplicemente imboccato un altro tunnel, quello delle dipendenze, che all’inizio è fuga tranquillizzante, abbraccio rassicurante, un miele che addolcisce e colma il suo bisogno d’amore (e anzi le dà quella tenerezza che anima lo sguardo su marito e figlio) ma, nel succedersi delle sostanze e dei loro effetti, snuda e rivela crudamente, crudelmente lo squallore dei suoi giorni. La consapevolezza viaggia silenziosamente insieme alla disperazione, la padronanza di sè cede il passo allo smarrimento. Si fa angosciante e dolorosa in lei la domanda sulla felicità della propria esistenza.
La pièce si inserisce agevolmente nel più ampio discorso che la Compagnia del Sole conduce ormai da molto tempo sul tema delle dipendenze, portando in scena lavori come “Il giuocatore”, ove è ben raccontato il tema della ludopatia (ma pensiamo anche al personaggio di Andrej in “Tre sorelle” di Cechov), promuovendo anche incontri con le scuole, seminari e dialoghi che cercano di stimolare la riflessione attraverso l’esperienza teatrale. In quest’ottica va visto anche l’incontro che ha fatto seguito allo spettacolo, durante il quale gli spettatori hanno potuto confrontarsi con il dottor Mauro D’Alonzo, psichiatra presso il Centro di Salute Mentale di Putignano, che ha parlato dell’uso consapevole e delle ragioni possibili delle dipendenze. Una serata diversa, un modo lucido, disincantato e libero di affrontare un tema così delicato, senza esprimere giudizi, senza dividere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un intervento medico che minimizzi il danno, che cerchi di governare la dipendenza stessa. Ciascuno di noi ha poi il suo vissuto, la sua esperienza (o l’inesperienza). Ciascuno ha il suo sistema di valori, la sua forza, la sua fragilità, la sua libertà. È comunque importante un approccio didascalico, pragmatico, che non sia giudicante o moralizzante, e perciò respingente, e ci sembra che con poche e semplici parole questo sia chiaramente emerso dall’incontro.
Imma Covino
Foto dalla pagina web della Compagnia
Grazie Imma Covino per questa bella analisi! Il viaggio continua!