“Puoi spendere anni a vivere, ore a leggere libri, milioni a farti allenare dallo psicanalista: ma alla fine la palla è in rete che finisce. L’errore annulla qualsiasi passato nell’istante in cui arriva a bruciarti qualsiasi futuro. L’errore azzera il tempo, qualsiasi tempo. Vedi cosa riesce a spiegarti, il tennis, senza dare nell’occhio: che quando sbagli, nel preciso istante in cui lo fai, sei eterno.” (Alessandro Baricco)
“Non è un caso, penso, che il tennis usi il linguaggio della vita. Vantaggio, servizio, errore, break, love (zero), gli elementi basilari del tennis sono quelli dell’esistenza quotidiana, perché ogni match è una vita in miniatura. Perfino la struttura del tennis, il modo in cui i pezzi entrano l’uno nell’altro come in una matrioska, rispecchia la struttura delle nostre giornate. I punti diventano game che diventano set che diventano tornei, ed è tutto collegato così strettamente che ogni punto può segnare una svolta. Mi ricorda il modo in cui i secondi diventano minuti che diventano ore, e ogni ora può essere la più bella della nostra vita. O la più buia. Dipende da noi.” (André Agassi)
Un tennista su un campo aspetta il suo avversario, un’attesa lunghissima, forse infinita: non è normale, anzi non c’è niente di più anomalo ed irregolare in uno sport che ha alla base il rispetto di norme comportamentali, con una totale considerazione dell’avversario in ogni atteggiamento; figuriamoci se, in questo contesto, possa essere concesso di arrivare tardi ad un incontro a chicchessia, fosse anche il numero uno al mondo. Eppure, qui l’avversario non c’è, non è presente, è assente, o, forse, meglio, è presente la sua assenza.
Il Maestro Giorgio Gaber si chiedeva: “Se nei gusti non c’è più lo scontro frontale, ma allora dov’è? Bisognerà pur decidere: o avere dei nemici o giocare a tennis”; e se anche questo viene negato, se il diritto ad avere un duello civile e senza spargimento di sangue è perfino osteggiato, cosa può fare il povero giocatore abbandonato sul rettangolo di gioco, oltreché aspettare, naturalmente? Di certo può e deve continuare ad allenarsi, stare in guardia, non farsi sorprendere o trovare impreparato o addirittura addormentato. E può raccontarsi, rivelarsi, riferire, con l’aiuto di molte parole e tanti minuti, tutte le difficoltà che si possono incontrare in un solo piccolo punto, che, per lo più, dura pochissimi secondi, o della assoluta inutilità di argomentare sulla risposta ad una battuta se l’avversario, dall’altra parte, decide di battere un ace, o, a dirla tutta, della acclarata impossibilità di comprendere quello stesso sport, che qualcuno non ha tardato a definire luciferino, a partire dalla individuazione dei punti, che passano, senza soluzione di continuità, da 15 a 30 a 40 e via dicendo, il tutto nell’estremo tentativo di dimostrare di esserselo pienamente guadagnato il diritto di stare su quel campo.
“Roger”, il monologo teatrale scritto e diretto da Umberto Marino, l’autore, tra l’altro, di “Italia-Germania 4 a 3” e “Volevamo essere gli U2”, e prodotto dall’Argot di Roma, con cui si è inaugurata – con ben dieci repliche e molti sold out – l’interessantissima nuova Stagione del Teatro Abeliano di Bari, è tutto questo e molto di più, potendo peraltro vantare la straordinaria interpretazione del nostro Emilio Solfrizzi, su cui – più che fondatamente – è costruito l’intero spettacolo, ben supportato dalle luci di Giuseppe Filipponio e dalle suggestioni create dalle musiche di Paolo Vivaldi.
Ma chi è Roger? O, meglio, che cos’è Roger? A nostro modesto parere, è troppo facile e semplicistico identificarlo in Roger Federer, il numero uno dei numeri uno, l’uomo che rappresenta la perfetta commistione tra classe e potenza, il cui gesto è musica (“è Mozart e i Metallica allo stesso tempo” ha detto David Forster Wallace), lo sportivo in cui sembra essersi incarnato il Dio del tennis (“Federer non gioca a tennis, è il tennis. Se Federer vince, piango tantissimo. Quando gioca ha qualcosa di divino. Come se stesse sospeso nell’aria. Nel tennis, Roger è il mio Dio.” ha sentenziato una sportiva prestata alla musica come Gianna Nannini). Ecco, Dio: quando, negli ultimi istanti della pièce, un Solfrizzi commosso e commovente cita per la prima volta il nome dell’assente confessando che si riferisce a “Roger, o Dio, che poi è la stessa cosa”, possiamo quasi esser certi di aver svelato l’identità del nostro personaggio misterioso, la sua riconducibilità metaforica ad un essere trascendente, cattivo, malvagio, spietato, dalla memoria labile, incurante, se non dimentico, della sua stessa creatura sino a condannarla al peso di un abbandono proprio nel momento di maggior bisogno; letto in questa accezione, l’intero monologo potrebbe essere un’invocazione laica, una preghiera in cui il campo di gioco sostituisce l’evangelico Orto del Getsemani.
Ma se così fosse, ci chiediamo per quale motivo sul palco viene disegnato solo mezzo rettangolo di gioco, con il pubblico della partita sui due lati, mentre l’altra parte del campo, quella che dovrebbe essere occupata da Roger, dobbiamo immaginarla in mezzo al pubblico del teatro: è solo una scelta scenica, per dar modo agli spettatori di godere di tutta la poliedrica arte recitativa di Solfrizzi, o possiamo cogliere anche in questo un messaggio recondito, cifrato, che riconduca il protagonista assoluto (quello vero, non quello immaginato) dello spettacolo al ruolo che gli compete, quello di attore che si massacra sul palco ogni sera, mostrandosi nudo al suo pubblico, con cui instaura sempre una lotta senza esclusione di colpi? Ebbene, se questo era l’intendimento di Marino, allora davvero non si poteva immaginare miglior interprete di Solfrizzi, attore a 360 gradi, a suo agio in ogni momento dello spettacolo, padrone assoluto del campo, il quale passa, apparentemente senza fatica alcuna, dal riso al pianto, dalla gioia al dramma, avvezzo, da par suo, a documentare ogni momento, ogni sentimento, ogni emozione passi nella testa, sulla bocca e, soprattutto, sul viso e negli occhi del suo personaggio, che, via via che la vicenda prende corpo, sentiamo sempre più simile a noi, vicino, se non, addirittura, sovrapponibile, alla nostra stessa esistenza.
In questa – per noi definitiva – chiave di lettura, Solfrizzi è Roger, due entità in uno, realtà e metafora, attore e spettatore, umano e trascendente che si fondono, e noi siamo lui, spietati nemici di noi stessi, irriducibili Don Chisciotte votati al martirio, perpetuando la splendida affermazione del già citato Wallace secondo cui “il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliora: vinci. Ecco la ragione per cui il tennis è l’impresa essenzialmente tragica del migliorare e crescere.”; così, “Roger” diventa un esistenziale grido di dolore che deve concedersi ad ogni uomo, ad ognuno possa vantare quel sacrosanto diritto, anche a costo di subire la più cocente delle sconfitte, di giocarsela sino in fondo quella dannata partita, di incontrare ed affrontare i propri maledetti spettri, di gettare il malandato e provato cuore al di là della rete, di viversela tutta questa fottuta vita.
Pasquale Attolico
foto Federica Di Benedetto
dal sito della Argot Produzioni