L’Associazione “ Nel gioco del Jazz”, presieduta da Donato Romito e con la sapiente direzione artistica del Maestro Pietro Laera, ha portato sul palco del Teatro Forma di Bari uno dei più prestigiosi sassofonisti jazz del momento, Steve Coleman accompagnato dal suo longevo gruppo I Five Elements, che, per l’occasione, si è esibito in formazione ridotta, “pianoless”, aprendo così la rassegna “Musiche Corsare 2024” dedicato al leggendario viaggiatore Marco Polo, esploratore, mercante, letterato, ambasciatore lungo la via della seta e delle magnificenze di Venezia.
Coleman, tra gli addetti ai lavori, è conosciuto soprattutto per aver fondato il movimento-artistico M-Base – acronimo di Macro- Basic Array of structured extemporitazion – che non intende essere uno stile musicale bensì un modo di pensare e generare la musica che richiede contemporaneamente improvvisazione e struttura, dove quest’ultima può essere la più differente perché ciò che conta davvero è quanta esperienza personale, quanto del proprio vissuto si riesca a trasformare in musica, quanto di più intimo di un musicista sia rappresentato in un uno spartito, mai uguale all’altro.
D’altra parte le radici del jazz affondano nella comunità convenzionalmente (e pessimamente) definita “nera” che, alla fine dell’ottocento, ha fatto muovere i primi passi a questo “modo artistico di suonare la musica” (Joachim-Ernst Berendt); è essa stessa mezzo/espressione di una lotta per l’integrazione in cui la fanno da padrona diversi sentimenti forti, dalla gioia al dolore, dalla rabbia alla protesta, financo all’ironia “vomitati” (mi si passi il termine poco elegante) da coloro che non avevano altro modo per affrontare vissuti tragici e grazie ai quali – paradossalmente – oggi possiamo vantare una musica d’ascolto di tutto rilievo, contaminata si nel corso dei decenni, ma che riesce pur sempre a mantenere un connotato intimo ed emozionalmente forte.
Il set, a parere di chi scrive, non ha lasciato molto spazio all’improvvisazione, anzi, il disegno musicale realizzato dall’affiatatissima band – che ricordiamo è insieme dal 1981 – che travalica le forme musicali conosciute, sembra il frutto di una partitura decisa a suon di pentagramma e matita nel quale ciascuno fraseggia, armato del proprio strumento, secondo ritmiche sincopate che poco riportano alle contaminazioni afroamericane o al repertorio classico del jazz che hanno anticipato la sua fama e che caratterizzano gran parte del suo percorso culturale e professionale. La ricerca e la creazione dei nuovi intrecci fatti di dissoluzioni tonali danno luogo, durante la serata, ad un jazz assolutamente articolato e di non proprio facile approccio.
Coleman e Jonathan Fynlayson, alla tromba (che in alcuni momenti ci ha fatto sorridere per il suo evidente stato di sonnolenza) dialogano elegantemente ed incessantemente senza mai sovrapporsi, anche se è più frequente che il sax alto prenda la scena senza colpo ferire, accompagnato da un ritmo ipnotico e oserei dire, quasi sempre uguale, sebbene tonalmente diverso, con il quale Rich Brown, al basso elettrico, segna il tempo con una compostezza fisica senza uguali, quasi immobile (al pari della suo sorriso).
A scompigliare questo disegno comunque di spessore e cifra stilistica non indifferente, ci pensa il batterista Sean Richman, che grazie agli accenti con i quali sembra affrontare le sue incursioni ritmiche ed alle carezze riservate al rullante, non fa mancare il suo prezioso apporto alla band che non può prescindere da nessuno dei suoi preziosi e capaci elementi.
Alla conclusione dell’esibizione, caratterizzata, altresì, dall’assenza di loquacità del protagonista, dal quale avremmo sicuramente gradito quantomeno la presentazione o spiegazione di qualche passaggio musicale, il plauso è stato però più che riconoscente nei confronti della band che, finalmente, tra sorrisi e piccole battute divertenti in italiano ed in inglese (queste ultime scambiate con pochi), ci ha regalato un bis di tutto rilievo, aperto da una fantasmagorica batteria che si è dilungata in vibranti virtuosismi molto apprezzati dal pubblico in sala che ha potuto così godere gli ultimi scampoli di un’esibizione alla quale abbiamo avuto la fortuna di assistere.
Gemma Viti
Foto di Gaetano de Gennaro