Il miracolo italiano ci ha insegnato che essere parte di una grande realtà aziendale disinfetta molti aspetti della vita che poi quella realtà determina: la sicurezza del lavoro è barattata con la sicurezza sul lavoro, la malattia spesso diventa una sfortuna necessaria, un danno calcolato, il concetto stesso di vita assume un significato tra il numerico e il belluino. Le statistiche delle morti sul lavoro parlano chiaro, nei primi quattro mesi del 2024 sono morte più di 350 persone, quasi tre al giorno. Non solo il quanto, ma anche il come. Satnam Singh era un bracciante agricolo a Latina, in condizioni disumane, le stesse che gli hanno causato la perdita di un braccio, le stesse che hanno fatto sì che il suo ‘padrone’, perché si chiama così, e non “datore di lavoro” chi tratta le persone come bestie da soma, lo scaricasse morente, per terra, con sua moglie e col suo braccio reciso in una cassetta di plastica.
Anche la vita di lavoro può essere peggio della morte. Un fenomeno che non ha ancora un nome può ingigantire il significato di quella parola che ancora non esiste. Così era il mobbing, nel 1997, magistralmente fotografato in “Palazzina LAF“. La storia, tratta da “Fumo sulla città” di Alessandro Leogrande, è quella di Caterino Lamanna (Michele Riondino, che qui esordisce alla regia), un’esistenza che urla quanto è trucida a ogni minuto che passa: coi capelli lerci di brillantina, dorme in una casupola fatiscente, e lavora respirando il ferro, e non solo, che ammanta Taranto tutta. All’improvviso l’occasione della vita sembra palesarglisi davanti: al prezzo di fare il guitto delatore del management aziendale rappresentato da Giancarlo Basile, interpretato da Elio Germano, rispetto ai moti dei sindacati e degli impiegati, che grazie all’istruzione comprendono le ingiustizie che accadono a scapito della salute delle persone in fabbrica, riceve un premio, quello di andare alla Palazzina LAF (Laminatoio A Freddo), dove può passare tutto il giorno a “grattarsi le palle”, insieme a altri “premiati” e a un sostanzioso aumento di stipendio, benefit compresi. Ben presto, quella vita d’ozio disvela tutta la propria assurdità. Tra chi improvvisa sessioni di fervida preghiera, a chi passa la giornata a scoppiare imballaggi saltandoci sopra, tutti impazziscono a modo loro. Anche Caterino andrà incontro alla propria sorte verso il mondo di fuori, e al più inesorabile degli epiloghi, quello di migliaia di tarantine e tarantini di tutte le età.
La scena che ancora oggi mi fa piangere è quella del monologo, interpretato da Michele Cuonzo, che riepiloga la vita alla LAF nell’occasione della dettatura di una lettera indirizzata al Vescovo, cui i mobbizzati intendono rivolgersi. La colonna sonora è quella del Calvario, suonata dalla banda. Impossibile che alle tante e ai tanti cresciuti a pane e processioni dei Misteri, non prenda la bocca dello stomaco.
Per il resto, la colonna sonora è affidata a Teho Teardo, e contiene il brano “La mia terra” interpretato dal tarantino Diodato, David di Donatello oltre a Elio Germano e a Michele Riondino, rispettivamente attore non protagonista e protagonista, e al brano “Sogno l’amore” di Andrea Laszlo De Simone.
Il Calvario non è l’unico richiamo del film alla cristologia e ai Misteri. Una scena, altrettanto bellissima, è quella che vede Lamanna e Basile confrontarsi durante la celeberrima processione dei Perdoni di Taranto, con l’inconfondibile rumore della troccola. Soprattutto, l’apertura, un tributo doveroso, maestoso, una dichiarazione d’amore a Elio Petri e alla sua classe operaia che va in Paradiso, girata nella Parrocchia Gesù Divino Lavoratore del quartiere Tamburi di Taranto, l’Inferno fatto caseggiati.
La vergogna in questa storia che dovrebbe raccontare il passato è ancora così forte, che lo stesso Michele Riondino ha pubblicato su Facebook una delle tre lettere con cui Acciaierie d’Italia denegava la possibilità di girare nell’Ilva vera, costringendo la produzione a spostarsi a Piombino, dove l’Ilva è stata ricostruita, LAF inclusa. Evidentemente, né le dinamiche dell’Ilva, né il mobbing, che si annida ancora in reparti “ghetto” presenti in moltissime aziende di tutte le dimensioni nell’Occidente che ama definirsi civile, sono morte. Chi l’ha subito, in migliaia di casi, non è qui per poterlo raccontare.
Il carattere dantesco del film è ravvisabile nel fuoco dell’altoforno, così come nel Purgatorio di un’aula di Tribunale. Non vi è Paradiso, in Terra, né poesia alcuna, se le promesse di una vita migliore sono acquistabili al prezzo dell’anima.
Beatrice Zippo