“G7: Sette secoli di arte italiana”, la mostra realizzata nelle sale nobili del Castello normanno-svevo di Mesagne, cattura il visitatore e lo trascina emotivamente come un fiume in piena

Un percorso espositivo che abbraccia sette secoli, con cinquantuno opere dei Maestri della storia dell’arte italiana questo è quello che offre “G7: Sette secoli di arte italiana”, la mostra per la cura del prof. Pierluigi Carofano che occupa le sale nobili del Castello normanno-svevo di Mesagne.

L’opera di Roberto Ferri, unico artista vivente presente in mostra, è la prima a fare da varco alle altre, anche se l’ultima ad essere stata prodotta. Ritrae il sommo poeta Dante e la sua amata Beatrice. Sin da subito, il dipinto riesce pienamente a creare un ponte tra presente e passato poiché il fruitore, attraverso un repentino passaggio nel tempo a ritroso, si ritrova immerso nell’epoca dantesca e incantato assiste alla realizzazione di un sogno. Racchiuso in un cerchio, quasi a volerlo sublimare in una forma perfetta, è ritratto “Il bacio” e l’artista, captando l’intensità di quell’amore immortale tanto agognato e mai vissuto, lo traduce in realtà creando un’immagine di infinito lirismo e pathos. L’amore platonico si fa materia e diventa piacere. Beatrice nuda si abbandona quasi in estasi tra le braccia di Dante che la avvolge bramoso in un abbraccio appassionato.

Le opere a seguire, lungo il percorso espositivo, procedono gradualmente in ordine cronologico.
La più antica è della bottega di Nicola Pisano, tra i primi ad aver rinnovato le forme rigide dell’arte bizantina, a cui segue quella di Mello da Gubbio nella quale si notano le influenze delle ricerche spaziali di Giotto.

Soave, poi, è l’elegante e delicata pittura aulica di Nando Ceccarelli, allievo di Simone Martini, tra i maggiori esponenti del gotico cortese.

Passo dopo passo si individuano i punti di mutamento e di innovazione, volti sempre più verso la ricerca del vero e della prospettiva, così come lo scorrere del tempo marca in ogni epoca il cambiamento dei canoni estetici.

Proseguendo il viaggio nel tempo, lascia rapiti il “Ritratto di gentildonna” di Matteo Civitali, nel quale il marmo è trasformato in finissimo ricamo e i particolari sono descritti con profonda naturalezza ed eleganza.

È del Verrocchio, maestro di Leonardo, il bassorilievo che ritrae Annibale Cartaginese. La centralità dell’uomo, in questo periodo è chiara, così come il ritorno alla bellezza classica proposta come modello.

Varcato il Rinascimento, l’emozione sale in vetta.
Ci si trova in un batter d’ali circondati incredibilmente da opere di artisti, tutte insieme ad un passo l’una dall’altra, trovate prima d’ora solo sui testi di Storia dell’arte. Leonardo da Vinci, il Giampietrino, il Perugino, Luca Signorelli, Piero di Cosimo, il Bronzino, l’Empoli, Raffaello Sanzio, Tiziano Vecellio, Lorenzo Lotto. Con loro l’arte subisce una metamorfosi. La realtà è rappresentata verosimilmente non solo dal punto di vista descrittivo, ma anche narrativo verso un linguaggio sempre più completo, e la natura è stata indagata in modo scientifico per poterla riprodurre.

Strabiliante è la corposità dello sfumato e l’estrema padronanza nell’uso del chiaroscuro del magnifico dipinto di Leonardo da Vinci “La Vergine delle rocce” (Versione Charemy), così come l’opera parzialmente attribuita al giovane Raffaello Sanzio “Il miracolo degli impiccati”. Ne “Il ritratto di gentiluomo” di Tiziano Vecellio appare evidente la morbidezza del tratto e la linea di contorno che sembra dissolversi.

Il Cinquecento è alle spalle e l’arte muta ancora. Il dramma sacro della “Flagellazione di Cristo” è espresso con profondo realismo da Ludovico Carracci. Guido Reni poi, uno dei massimi esponenti del Classicismo seicentesco e tra i principali esponenti della pittura barocca, rappresenta un vecchio “San Giuseppe con bambino” e “Santa Cecilia”. In queste opere sapiente è l’uso della luce e contenuta è l’espressione del pathos.

Procedendo ancora si riconosce l’episodio biblico dell’ebrea Giuditta che sconfigge, attraverso l’astuzia, il condottiero Oloferne. Qui Artemisia Gentileschi brutalmente esprime la vendetta del debole sul prepotente.

Siamo ormai nella metà del 1700 tra il Barocco e il Neo Classicismo.
Corrado Giaquinto descrive uno degli episodi più celebri della guerra di Troia, quello tra Ulisse e Diomede. La scena non è quella dell’eccidio, ma il momento immediatamente prima e focalizza l’attenzione sugli sguardi dei due capi greci.

Il percorso si fa sempre più avvincente nella sala che accoglie l’opera del Canaletto, considerato tra i massimi esponenti del Vedutismo, e di suo padre Bernardo Canal.
Le vedute di Piazza San Marco e del Canal Grande sono formate da minuziose scene con colori, luci e ombre verosimili. La resa prospettica e dei minimi dettagli è perfetta, anche grazie all’uso della camera ottica. I monumenti descritti non fanno da sfondo, ma sono soggetto dell’opera e le figure minute, rappresentate nella loro quotidianità, rendono le architetture ancora più maestose.   

La mostra riesce ad ospitare due calchi in gesso del massimo esponente del Neoclassicismo in scultura Antonio Canova.
Sembra di trovarsi nell’antica Grecia con i pugilatori Creugante e Damossemo, ma le figure sono dinamiche. È riprodotto un atto istantaneo del corpo in movimento e dello sguardo che rivela un’espressione violenta e spietata, pregna di odio.

L’ultima sala del castello è dedicata agli esponenti dell’Arte Moderna e Contemporanea.
Gli artisti si aprono alla sperimentazione, non necessariamente restando legati al passato e senza doversi basare su regole pregresse. Giovanni Fattori esponente dei Macchiaioli illustra la “Campagna romana” con rapide e sfaldate pennellate. Giuseppe De Nittis, pittore verista, barlettano di nascita, ma francese d’adozione, descrive nei suoi dipinti la vita elegante dei salotti parigini. Favoloso è “Il ritratto dell’Infanta di Spagna” di Giovanni Boldini, divenuto uno dei principali ritrattisti e ambito per questo dall’alta borghesia e dalla nobiltà.

Con un passo si attraversa un secolo e si raggiunge la seconda metà del Novecento. La libertà ottenuta ha generato un’attività creativa senza vincoli stravolgendo le tradizioni del passato. La creazione per l’artista è un modo per far emergere l’io interiore che scalpita per rendere la sua anima manifesta. Niente segue una tecnica convenzionale e qualsiasi materiale può essere usato. Alberto Burri compone “Nero Bianco Nero” assemblando elementi pittorici a tessuti, cartoni, cerniere lampo, plastica e resina. Ora anche una macchia può diventare soggetto che trasmette emozioni. L’immaginazione è alla base della creazione artistica e nessuno può dire cosa o come scolpire/dipingere.

Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che trasformano una macchia gialla nel sole.” (Pablo Picasso).

Porre dei limiti all’arte è come tentare di arginare un fiume in piena.

Cecilia Ranieri
Foto di Cecilia Ranieri

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