In un panorama culturale con orizzonti così fiochi, la seconda edizione di un Festival Jazz è sempre una bella notizia. Ciò accade in una città come Noicattaro, che dopo un numero imprecisabile di anni in cui è sembrato fosse stata attraversata da una spargisale spirituale, che limitava l’incoming da fuori città alle processioni della Settimana Santa, e gelava sul nascere moltissime altre gemmazioni di impegno, soprattutto giovanile, per dragare la comunità fuori dal piattume che spingeva le persone a lasciare il paese, per le uscite serali, ciò assume i contorni di un miracolo.
Ci provano da anni le associazioni che vogliono risollevare l’invidiabile spazio ExViri, ci prova chi organizza “Oculus”, coinvolgendo quest’anno anche la popolazione di origine albanese, c’è anche chi mette in piedi cicli di mercoledì fotografici in biblioteca, di visite al teatro all’italiana più piccolo del mondo (location anche del “Pinocchio” di Garrone), di letture filosofiche; meno fortuna ha storicamente chi prova a portare il rock indipendente.
Ci riesce meglio, al momento, chi ha una proposta più glam, con partner dal portfolio prestigioso e un’organizzazione un po’ più vicina all’epicentro del governo cittadino.
Perché “NoJazz”? Non è una negazione: Noicattaro si è chiamata Noja fino all’Unità d’Italia, dopodiché per evitare omonimie ha abbracciato il toponimo dei primi abitanti della costa dell’attuale Torre a Mare, l’insediamento di Katri, da cui, secondo una teoria che al momento assomiglia a una leggenda, a seguito di una deportazione ad opera degli Illiri, da un lato nacque Cattaro, al di là dell’Adriatico, mentre nell’entroterra prossimo prese vita l’attuale centro urbano.
La crasi con Jazz, di qui, è immediata.
La musica a Noicattaro non è aliena: qui è nato Rito Selvaggi, direttore di tre conservatori, compositore e direttore d’orchestra; qui è nato anche Ernesto Abbate, tra i più importanti compositori di musica originale per banda, celebrato da Giovanni Allevi, di passaggio fortuito a Noicattaro per una deviazione dall’autostrada, con un post di Facebook. Per questo, e non solo, la musica a Noicattaro deve tornare, e restare.
Dopo una prima serata in compagnia di Fabrizio Bosso, e prima dell’appuntamento conclusivo con Rita Marcotulli, è la volta di Sergio Cammariere. Salutato da uno straordinario afflusso di persone, straordinario per la location, ma prevedibile visto il nome cui il grande pubblico, non solo tra chi ascolta jazz, è appassionato. Una piazza gremita e calorosa, nonostante il primo fresco si stia finalmente riaffacciando da queste parti, ha salutato l’artista, con il suo spirito scanzonato e il suo quartetto storico che prevede Luca Bulgarelli al contrabbasso, Amedeo Ariano alla batteria e Daniele Tittarelli ai sassofoni.
Il tour presenta molti brani dell’album più recente “Una sola giornata”, ma ripercorre tutti i suoi grandi successi, come “L’amore non si spiega”, “Via da questo mare”, “Cantautore piccolino”. Tante le labbra che si muovono, specialmente nel pubblico femminile. Cammariere gioca con il pubblico, nelle “Situescion” che alle volte hanno coinvolto lo stesso Fabrizio Bosso, un interplay che va al di là di quello dei brani musicali, e si estende da lui ai musicisti e da tutti essi fino al pubblico: Cammariere danza, si diverte di gusto, un gusto che le persone gradiscono e a loro volta trasmettono verso di lui.
Le sonorità sono quelle cui ci ha abituati: uno swing convinto e rodato, crocevia tra la parte che attinge prettamente alla tradizione cantautorale e sinfonica italiana, fino ad approdare alle figure, sempre gustose, di latin jazz, che in mano a Cammariere sembrano un fatto semplice, quasi un esercizio di dissimulazione di tanta maestria nell’incedere della musica, che piove generosa sulle persone, per culminare nel finale “Tutto quello che un uomo”, cantato con soddisfazione praticamente da tutti.
Cammariere, dal palco, con il suo impeccabile stile, non lesina su una riflessione verso un mondo pieno di dolore e verso il bisogno improrogabile di pace. Lo fa qui e lì durante il concerto, lo esplicita nel bis “Dalla pace del mare lontano”.
Lo fa, soprattutto, con una canzone del nuovo album, che si candida a diventare tra le mie preferite, delle sue, “I fiori parlano”:
“L’uomo si è fatto da parte ed era ora
È lui la causa di tutti i nostri mali
Con il suo fare ed essere perverso
Nota stonata in tutto l’Universo”
La grammatica dell’accoglienza di artisti così grandi può sicuramente migliorare: dalle campane dell’orologio in piazza che imperterrite hanno suonato ogni quarto d’ora, all’illuminazione, che invece di far posto alle luci di palco o alla luminaria che si stagliava dietro il palco stesso, che avrebbe anche favorito la comprensione dello spazio scenico da parte di chi frequenta la piazza, ha privilegiato i potenti lampioni esistenti.
Beatrice Zippo
Foto di Gaetano de Gennaro