La grande bellezza della musica salverà il mondo: grande successo al Teatro Petruzzelli per “Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me?”, la pièce con Toni Servillo, Maria Tomassi, Max Jota e l’Orchestra della Magna Grecia diretta da Gianna Fratta che ha inaugurato la Stagione 2024.25 della Camerata Musicale Barese

Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti
tali tratti di naturalezza
che non si può, dopo averli conosciuti,
non finire con una mutezza completa.
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio tutto ciò che è complesso.
[tratto da “Le onde” di Boris Pasternak]

È ormai comune pensare, soprattutto tra gli addetti ai lavori, che il mondo della musica colta sia affetto dal male, a questo punto incurabile, di una incessante quanto febbrilmente spasmodica indagine alla ricerca della celebrazione del personaggio illustre di turno, una consuetudine talmente incardinatasi nei cartelloni delle stagioni culturalmusicali dei teatri di tutto il mondo al punto da incancrenirli, così da farne più che di sovente dimenticare, se non cancellare, gli aspetti positivi. Se, infatti, un tempo era possibile rintracciare nella valorizzazione della ricorrenza il devoto omaggio di riconoscenza dovuto ai grandi compositori del passato, perpetuandone il lavoro ad uso e consumo delle nuove generazioni, oggi è più facile rintracciare una virata verso una deresponsabilizzazione nelle scelte artistiche delle programmazioni che vengono letteralmente cannibalizzate da produzioni di dubbio spessore e gusto, il che porta ovviamente ad un appiattimento dell’offerta, in cui si punta, per lo più rinunciando ad una perlomeno accettabile qualità, non sull’apprezzamento dell’esecuzione o dell’arte compositiva, ma sullo sterile sensazionalismo d’occasione pur di ottenere una confacente resa numerica del pubblico, infischiandosene dell’ulteriore imbarbarimento nella già profonda mancanza di conoscenza dell’eredità musicale di una società in cui conta solo l’apparenza.

In questa già drammatica situazione si è inserita un’altra nefasta abitudine che potremmo definire ‘la psicosi da piattaforma’, quella strana forma di schizofrenia che porta i fruitori di musica – soprattutto gli occasionali ma, purtroppo, anche gli abituali – a saltare da una romanza all’altra o da questa a quella aria d’opera costruendosi la propria compilation, la propria playlist, il proprio elenco di capolavori appartenenti alla musica classica e lirica, ignari della magnificenza che si cela in ogni singola nota dello spartito di un’Opera nella sua integrità; anche queste malsane digressioni musicali, di certo figlie dei frenetici quanto barbarici tempi che ci è dato in sorte di vivere, vengono infine nutrite da opinabili scelte artistiche realizzate nel nome della rievocazione del momento, celebrazione o commemorazione che sia.

Il 2024 è l’anno di Giacomo Puccini. Concerti, opere, se non convegni e libri: a cento anni dalla sua morte, tutto parla del Maestro, universalmente reputato operista sommo, ma, a nostro modesto parere, questo non può bastare; invece di abbandonarsi a facili costruzioni spettacolari, occorrerebbe introdurre il pubblico all’ascolto, mostrargli che cosa esprime la musica di una data aria, di una data scena, educarlo all’incanto di certi versi e dei suoni che li incarnano. Per farlo, non si può non parlare dell’opera pucciniana in modo efficace, indirizzando e guidando l’attenzione dello spettatore verso una scelta ponderata, alimentando e sostenendo la sua percezione, spiegandogli il contesto, i personaggi, il dramma, in una divulgativa didattica dell’ascolto finalmente appetibile per tutti, scevra da stucchevoli dissertazioni per ristrette cerchie di eletti. E chi meglio di Puccini può essere lo strumento di questa imponderabile corrispondenza di musicali sensi, di questo universale trasferimento di sapere, di questa comunanza di sensazioni emotive che avvolgono e sconvolgono cuori che battono all’unisono?

È indubbio che, per combattere una battaglia di sì vasta portata, occorra dotarsi di armi molto potenti: ci vuole una grande bacchetta che, dotata di non comune sensibilità e conoscenza musicale, sappia dirigere un ensemble – orchestra e voci – di alto livello che affronti il celeberrimo repertorio senza timori reverenziali, e, last but not least, un fine divulgatore, un eccelso affabulatore dal timbro personalissimo che sappia trasmettere emozioni inedite, seducendo il pubblico al punto da ipnotizzarlo senza concedergli vie d’uscita che non siano sublimate nell’attraversamento e nel farsi attraversare dalla musica del Genio lucchese.

Gianna Fratta, l’Orchestra della Magna Grecia, Maria Tomassi, Max Jota e Toni Servillo sono stati, rispettivamente nelle qualità testè riportate, i protagonisti di questo miracolo, come ha potuto appurare il folto pubblico della Camerata Musicale Barese, ottimamente presieduta dalla stessa Fratta, che ha preso d’assalto – due rappresentazioni sold out in un solo giorno, una delle quali inaugurava la rassegna ‘Musica Civica’ – il Teatro Petruzzelli di Bari per l’apertura d’eccezione della Stagione 2024.25, che gode della sapiente direzione artistica di Dino De Palma, con lo spettacolo “Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me?”.

L’autore partenopeo Giuseppe Montesano cuce addosso a Servillo una figura di spavaldo, se non spaccone, dandy che, al pari del completo di intonso lino bianco che indossa, gli sta a pennello: impenitente uomo di mondo e raffinato intellettuale, il protagonista si è disegnato la propria inattaccabile mappa culturale con punti di riferimento che considera inamovibili, e che individua in Rilke e Trakl, Schönberg e Webern, Stockhausen, Cage e Dylan, sino a che non si invaghisce di una giovane donna che prova non a scardinare bensì ad integrare le sue certezze inserendovi la musica di Puccini, da lui considerata – forse preconcettualmente – troppo popolare e zuccherosa; ne nasce una disputa da cui – ça va sans dire – l’amata uscirà vittoriosa, piegando il refrattario ascoltatore alle ragioni dell’immensa Arte del compositore, un po’ come avvenne per una parte della critica contemporanea del Maestro che – non dimentichiamolo – guardava con sospetto al suo successo, considerandolo il risultato di una presunta compiacenza col gusto melodrammatico cosmopolita ed una indefinita prostrazione agli italici ideali piccolo-borghesi sviluppatisi tra le due guerre, giungendo sino a trasformare il dissenso in tempestoso ed impetuoso disgusto, culminato in tutta la sua irriguardosa ed ingiusta veemenza nel libretto “Giacomo Puccini e l’opera internazionale” firmato nel 1912 da Fausto Torrefranca.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, eppure chi frequenta le sale da concerto ed i teatri lirici sente spesso pronunciare le stesse critiche parole che Montesano mette in bocca al suo personaggio; dunque, ben venga un’operazione come questa, pronta a spiegare in due suggestive quanto accattivanti parole che cos’è un’opera lirica, così da attrarre una fetta di pubblico allontanatasi o, peggio, mai raggiunta – e pensiamo naturalmente e drammaticamente ai nostri giovani – dalle attuali produzioni; l’iperbole di pucciniana redenzione del protagonista – che ci ha fatto tornare in mente le parole di Renato Fondi, musicologo, poeta e critico d’arte contemporaneo del Maestro (“Tecnicamente come orchestratore e armonizzatore, Puccini si rivela sempre un artista sensibile e di buon gusto. L’uso dei motivi conduttori gli è stato suggerito da Wagner, e l’armonistica dissonante era già propria dei musicisti francesi quando Puccini ne approfittò, ma gli spetta il diritto della precedenza e l’onore di aver disseminate le sue musiche di trovate melodiche e ritmiche, orchestrali e vocali le quali aggiungono complicazioni inutili e a volte anche finezze impreviste e gustose. Carattere schietto, insomma, e rappresentativo di un particolare e diffuso stato di coscienza.”) – non potrebbe aver avuto miglior interprete di Toni Servillo, impeccabile – ma ormai non è più una sorpresa – ed in assoluto stato di grazia, magnifico nel suo dire, nel suo pesare ogni parola, ogni sillaba, ogni sospiro, ogni silenzio, sino a giungere negli angoli più nascosti dell’animo di ogni spettatore.

L’altissimo tasso di intensità drammaturgica della pagina musicale pucciniana viene reso mirabilmente dalle voci di Maria Tomassi e Max Jota nonché dall’Orchestra della Magna Grecia, naturalmente grazie alla presenza sul podio di Gianna Fratta, dominatrice assoluta di questa operazione: la sua direzione ci concede di vivere appieno le furenti passioni dei protagonisti e di ‘sentirne’ tutto l’incontestabile pathos, grazie ad una concertazione viva, vibrante, emozionante, entusiastica ed entusiasmante, dal ritmo serrato ma anche dai sublimi afflati, esaltando le scelte timbriche e le raffinate armonie dell’autore, mostrando sempre una religiosa attenzione alle ragioni del canto, così da esaltare la modernità delle famosissime arie, traendone sonorità compatte e dolcissime, in modo che anche l’ascoltatore meno attento non potesse non godere della sublime ricchezza della tavolozza di colori presente sul pentagramma pucciniano. Scorrono “E lucevan le stelle”, “Mario, Mario, Mario!” e “Vissi d’arte” da “Tosca”, “Che gelida manina” e “Sì, mi chiamano Mimì” da “La Bohéme”, “Sola, perduta, abbandonata” e, nei bis, “Tu, tu amore? Tu?” da “Manon Lescaut” e, infine, da “Madama Butterfly” la magnifica “Tu, tu, piccolo Iddio” e, soprattutto, il sublime “Coro a bocca chiusa” che ne chiude il secondo atto, da sempre considerato da chi scrive non solo la prova dell’incommensurabile genio di Giacomo Puccini, ma anche uno dei momenti più alti della superba evoluzione della produzione musicale di tutti i tempi, una pagina imperfettibile in quanto già traboccante di innata perfezione, in altre parole, una delle migliori dimostrazioni dell’esistenza di Dio; quando Servillo, dopo aver citato finanche Eliot e Leopardi, si avvicina alla Direttrice d’orchestra sussurrandole una richiesta all’orecchio, abbiamo quasi pregato che fosse per ascoltare ‘quella vecchia romanza’ che, anche in assenza di coro, possediamo e ci possiede, catturiamo e ci cattura oltre ogni più arroccata difesa, in tal modo indissolubilmente legando ogni cuore della folta platea della Camerata barese all’Arte di Puccini.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography

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