Prosegue il breve ma intenso viaggio della nostra redattrice Beatrice Zippo in quel di Lugano ove è stata ufficialmente invitata per recensire le performance della XXXIII edizione del ‘Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea’. (N.d.D.)
Giuni Russo ci aveva visto giusto quando parlava di strade mercenarie. Ci aveva visto giusto perché tutta la canzone “Un’estate al mare”, consegnatale dal suo mentore Franco Battiato, era una parodia delle ipocrisie e delle smanie dell’Italiano medio.
Tra queste, iniziava proprio dal rapporto di potere più ovvio di tutti: quello del denaro in cambio di un corpo, l’esercizio di potere più antico del mondo, la deumanizzazione più banale. Che sia una ragazza venuta da lontano con la promessa di un futuro migliore o un video di piedi su OnlyFans, il medium cambia, il senso no.
Per strada nasce lo spettacolo “Medea”, in origine “Medea per strada”, della compagnia pugliese Teatro dei Borgia, cofondata da Elena Cotugno e Gianpiero Alighiero Borgia, entrambi ideatori dello spettacolo di cui Borgia cura la regia. La stessa Cotugno va in scena. Originariamente lo spettacolo si svolge su un furgone scenografato come un numero inquantificabile di altri furgoni: tutti quelli che ogni giorno trasportano le vittime di tratta da un luogo che dovrebbe essere casa, ma è perlopiù miseria, a un luogo che sacrificherà il loro stato di bisogno al culto del denaro. Cotugno, assieme al resto della compagnia, lavora da quasi dieci anni fianco a fianco con le operatrici e gli operatori sociali che ogni giorno cercano di occuparsi dei bisogni primari delle donne vittime di tratta, portando il furgone, e lo spettacolo, sulle strade della prostituzione, da Nord a Sud, per piccolissimi gruppi.
Per la XXXIII edizione del FIT (Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea) di Lugano, la scelta del luogo dove portare la performance è un circolo ACLI. Non ci si aspetterebbe, nel lindore che rende le foto fatte agli edifici di Lugano del tutto sembianti a rendering architettonici, un locale ad alto tasso di normalità. Non solo: le pareti e i dépliant informativi parlano dei bisogni di tutta una popolazione che per svariate ragioni ha meno tutele e meno strumenti, riportando il teatro bruscamente sul pianeta Terra. Qui Medea si muove, e facendosi un tè alla cucina del circolo, racconta la sua storia: da bambina della Bucarest bene, a vittima di tratta, all’illusione di un amore pseudonormale, a due figli con il pappone, fino al tragico epilogo.
E urla, Medea, urla quando si racconta, urla quando canta “Chandelier” di Sia, urla quando ride sguaiata, urla dalla disperazione, così tanta disperazione da non stare più nella stanza, da andare verso una porta posteriore, aprirla e lanciare urla verso le quiete case della Lugano moderna, verso le coscienze assonnate che si nascondono dietro quelle finestre. Con le lacrime che mi tracimavano oltre ogni tentativo di arginamento, ho pensato che una pattuglia di passaggio avrebbe potuto davvero scambiare la performance per una variabile impazzita nel silenzio circostante, e chiederci conto di quanto stesse succedendo.
Che lasci la scena piena di sangue da lavare come quella di Tiezzi, o che sia armata di saliva e mazza ferrata come quella di Lanera, tanto per citare le due versioni che ho visto negli ultimi due anni, Medea porta a compimento un bisogno che non è vendetta, non è guerra, ma sacrosanta, estrema giustizia, l’atto dovuto verso tutte le donne che invece soccombono al soffocamento del sé, di tutte le canzoni d’amore che vorremmo cantare a fior di labbra, di tutti i figli della libertà e della dignità che vorremmo avere.
La sua catarsi tragica è la nostra liberazione.
Beatrice Zippo
Foto dal Profilo facebook Teatro dei Borgia
e dal sito FIT Festival