Danio Manfredini ipnotizza ancora una volta il pubblico del Teatro Kismet di Bari con la sua partitura scenica “Cinema Cielo”, acutissima e lancinante meditazione su un’umanità reietta

‘Creare’ non è uno dei soliti giochetti un tantino frivoli. Il creatore s’è impegnato in un’avventura terrificante che consiste nell’assumersi egli stesso sino in fondo i pericoli corsi dalle sue creature. Una creazione che non abbia all’origine l’amore è inconcepibile. Io con la scrittura ho ottenuto quanto cercavo. Ciò che, essendo per me un ammaestramento, mi farà da guida, non sarà quello che ho vissuto, ma il tono col quale lo riporto. Non gli aneddoti, ma l’opera d’arte. Non la mia vita, ma la sua interpretazione.” (Jean Genet)

Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore.” (dal Cantico dei Cantici)

Cinema Cielo, lo splendido spettacolo che dal 2004 ad oggi ha ipnotizzato innumerevoli platee, in realtà non avrebbe mai dovuto vedere la luce; il suo geniale autore, Danio Manfrendini, ebbro di tante magnifiche produzioni teatrali, aveva deciso di realizzare un’opera cinematografica che prendesse le mosse dall’amato romanzo di Jean Genet Nostra Signora dei Fiori, quando il teatro bussò di nuovo alla sua porta e gli “impose” di realizzare uno spettacolo che prendesse le mosse da quel mondo e da quelle atmosfere. Dunque, pur in assenza di un’opera cinematografica, questo di Manfredini deve certamente essere considerato anche un omaggio alla Settima Arte; Genet ed il suo romanzo, non potendo più essere immagini, divennero immaginario, estrinsecandosi solo come sottofondo, pista audio, traccia sonora di un improbabile film porno proiettato nella sala a luci rosse, realmente esistita in quel di Milano, del Cinema Cielo, luogo ameno popolato da reietti di ogni specie, dall’uomo attempato al gay in cerca di compagnia, dal ragazzino curioso allo spiantato che spera in qualche marchetta, dai vecchi e dagli sciancati che improvvisano maldestri atti di sodomia fino all’extracomunitario che lo ha eletto a propria abitazione: così quello che un tempo sarà stato tempio della Cultura diviene un buco nero che attrae, cattura, inghiotte e tramuta, contenitore di un coacervo di solitudini cui non riescono a sottrarsi nemmeno le cassiere ed il vecchio gestore del cinema.

Quando finalmente il velo delle tenebre si squarcia innanzi i nostri occhi, distesa sul palco, in preda alla disperazione, c’è una prostituta trans (interpretata dallo stesso autore / regista) che, con le sue posticce ali rosse, potrebbe essere un novello Lucifero, nuovamente cacciato dal Paradiso per aver preso troppo alla lettera le sublimi parole dell’apocrifo Cantico dei Cantici, un Icaro maldestro che ha chiesto troppo al suo volo o, molto più semplicemente, uno degli angeli di wendersiana memoria, caduto sulla terra in cerca di umanissimo Amore: sarà lui/lei a farci da guida, novello e nostro personalissimo Virgilio, traghettandoci nel girone dantesco che stiamo per affrontare, traducendo (translate) per noi il rito che incessantemente, perennemente, instancabilmente vi si compie, pronta/o a condurci in un viaggio di inesauribile perdizione, di putrida lascività, di carnali voragini, dove ogni verità si trasforma in finzione, il sogno diventa orrore, il più artistico dei Cieli e il più infimo degli inferi si mescolano indefinitamente, incontrandosi e scontrandosi senza fine.

Se i clienti del cinema guardano verso il pubblico del teatro, non possiamo non chiederci chi guarda chi, chi sono gli attori e qual è il pubblico, qual è la realtà e quale la finzione, per infine comprendere che siamo tutti condannati, noi come loro, a rivivere le scene in un loop mefistofelico (testimoniato, tra l’altro, dai coriandoli che troviamo già sparsi per terra all’inizio dello spettacolo ma verranno lanciati solo successivamente da uno dei protagonisti o anche dalla rivelazione del vero motivo della ‘caduta’ della prostituta) che, non ammettendo espiazione e, tantomeno, salvezza, ci costringe a giungere ad una totale trans-azione con la nostra stessa percezione, in un gioco di rimandi e di specchi in cui il film perde di significato per ritrovarlo solo quando riesce a connettersi con la vita reale, con il microcosmo presente in sala, fatto di corpi senza più un’anima (“Hello, is there anybody in there?” cantano i Pink Floyd nella splendida colonna sonora dello spettacolo, in uno dei brani estratti da “The wall”, richiamato probabilmente per creare un parallelismo tra l’antieroe watersiano e la folle solitudine del pubblico del Cielo), svuotati di significato, arredi della sala al pari delle vecchie sedie di legno, essi stessi schermi sdruciti su cui scorrono le immagini di una vita passata, vissuta o forse solo sognata, in cui la sessualità, semmai sia stata mai gioco vitale, ora appare solo come l’ennesimo – forse l’ultimo – escamotage per quelle masse private della loro soggettività, che si abbandonano ad orge improvvisate pur di non essere completamente sole, per dirsi ancora vive, sentirsi parte di una comunità di simili, di una tribù di fratelli e sorelle nella notte, giunte tutte qui, in questo non luogo che le ospita senza chiedere loro alcuna spiegazione, peraltro in un’atmosfera natalizia che – se possibile – rende tutto molto più malinconico, avvilente, ingannevole, amaro, vuoto.

Lì dove il sesso si sovrappone all’amore e diviene unico oggetto di scambio, merce mai pagata al giusto prezzo, che pure chiede, per il suo espletarsi, il prezzo più alto, quello della perdita della propria umanità, la prostituzione, del corpo ma anche e soprattutto dell’anima, appare come la sola via d’uscita in grado di assicurare – non l’Amore, no, ma – un amore, che, seppur posticcio ed artificiale, verrà accettato, fuori e dentro lo schermo, in vece di quello a lungo invocato ma mai concesso da un Dio Padre che, dimentico dei propri figli, li ha lasciati morire all’inferno della civiltà, permettendo che condividessero la sorte di Cristo nel precipizio della percezione dell’abbandono sulla croce, della condanna alla ripetizione inesauribile di gesti e situazioni che si rinnoveranno tra quelle quattro madide mura ogni giorno, all’infinito.

Questo e molto altro fanno di Cinema Cielo uno spettacolo giustamente considerato cult, ripreso oggi dal suo geniale creatore e tornato, per nostra fortuna, ancora una volta nell’annuale cartellone (“Attraversamenti”, come sempre magistralmente curato da Teresa Ludovico) di un Teatro Kismet di Bari traboccante come non mai, in cui il timore dell’argomento vintage (i cinema a luci rosse sono ormai un lontano ricordo, soppiantati dal sesso libero promulgato da internet) viene subito cancellato dalla certezza che la scrupolosa quanto efficace analisi sia riuscita nell’intento di superare le pareti della sala – cinematografica e teatrale – per fotografare e rivelarci una tranche di società che non ci è affatto sconosciuta, ma che fingiamo di non vedere, soprattutto se nidifica all’interno delle nostre stesse case; così abbiamo ritrovato intatte le suggestioni di una pièce che possiamo senza tema di smentita indicare come una inamovibile pietra miliare cui molti autori si sono ispirati in questi anni, buon ultimo il Ferzan Özpetek di “Nuovo Olimpo”.

A dare vita ai tanti personaggi che si alternano sul palco un quartetto di straordinari performer formato dallo stesso Manfredini, Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro, perfetti anche grazie alle luci di Maurizio Viani ed alla efficacissima colonna sonora di Marco Olivieri; la loro Arte, che non poteva trovare miglior vate che in Genet, nella sua poetica visionaria, nel suo pensiero, non ammette sconti né tantomeno scappatoie, non si concede ma – semmai – eccede pur di liberarci per un attimo dalle nostre catene per poi ricordarci il nostro umano orribile destino, sconvolge e sovverte i legami tra realtà e finzione, tra vita e morte, spalanca i nostri occhi rivelandoci verità ineluttabili quanto inconfessabili, ci procura un penetrante spasimo misto ad inconsolabile turbamento di fronte all’antropica necessità di una impossibile felicità, ausculta ed amplifica ogni palpito del nostro cuore, così da rendere questa acutissima, lancinante partitura scenica, sublime meditazione sulla nostra (dis)umana (dis)avventura e sulla eventualità di trovarvi sempre e comunque – in qualunque accezione e da qualunque angolazione la si guardi – Poesia.

Pasquale Attolico
Foto dalla pagina web della Compagnia

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