“Danzare vuol dire soprattutto comunicare, unirsi, incontrarsi, parlare con l’altro dalla profondità del proprio essere. La danza è un perpetuo diario intimo di emozioni provvisorie, una poesia in cui ogni parola è un movimento: il mio vocabolario è quello del corpo, la mia grammatica è quella della danza, la mia carta è il tappeto di scena. Danza è unione: da persona a persona, da persona all’universo, da persona a Dio.” (Maurice Béjart)
Tra i più prestigiosi esempi nel mondo della tradizione coreografica d’autore, il Tokyo Ballet si è sempre contraddistinto, fin dalla data della sua fondazione nel 1964, per il suo ampio repertorio che include balletti classici, neo-classici e contemporanei, non ponendosi alcuna preclusione nella scelta tra le opere da proporre, fossero queste frutto di coreografi occidentali o orientali. Anzi, forse uno dei maggiori punti di forza della Compagnia giapponese sta proprio in quella strana commistione tra danza classica e moderna, in quel gioco di rimandi senza fine tra due universi apparentemente così lontani, se non addirittura contrapposti, che diviene fusione talmente perfetta da far credere finanche a noi, comuni mortali, di poter comprendere appieno cosa accade sul palcoscenico, di saper dare un significato alle traiettorie indefinibili che quei corpi disegnano nell’area, ai simboli, ai messaggi criptati che – in fondo lo sappiamo bene – appartengono ad un linguaggio, ad una civiltà e – forse – ad una umanità diversa dalla povera nostra.
La dimostrazione di forza ed agilità dei danzatori impegnati non si arresta ad un mero superamento dei limiti della fisicità del corpo, assolutamente imperfetto per sua stessa natura, o della rigorosa geometria che delinea lo spazio in cui questo è chiamato a muoversi, danzando lungo il perimetro di un palcoscenico per lo più nudo, bensì diviene mezzo, strumento, nel tentativo di unire l’estetica astratta di sempre con una innata emotività narrativa che possa infine generare una performance aerea, in cui i protagonisti, tutti magnifici nel loro inarrestabile flusso di repentine corse bruscamente interrotte, cadute sospese, incontri giocosi e scontri irati, prese azzardate o improvvisamente schivate, tutti sospinti solo dalla continua quanto impertinente sfida alle universali leggi della natura, prima fra tutte quella di gravità, creavano, grazie ad una danza sempre elegante ed intensa allo stesso tempo, amorevoli conflitti corporei di esseri che, incontrandosi e scontrandosi quasi fossero particelle, elettroni di un enorme atomo, producevano, con il loro moto continuo, elettricità che potesse giungere sino alle più recondite corde dell’animo, fosse anche il più sopito, degli astanti, inspiegabilmente, incomprensibilmente, impalpabilmente bensì finalmente toccati, sino a farci trasalire in preda alle emozioni o a farci esplodere in un liberatorio quanto fanciullesco sorriso.
Le tre coreografie, proposte in una consecutio in crescendo che, già di per sé, risultava perfetta, erano in grado di vantare tutto questo, potendo verosimilmente essere considerate se non la summa della formazione, perlomeno una magnifica estrinsecazione del pensiero che agita e domina la compagine. Con tali premesse, sarebbe risultato impossibile non appassionarsi ai titoli proposti nell’evento inserito nel cartellone della Stagione di Opera e Balletto 2024 della Fondazione del Teatro Petruzzelli, che non solo possono ben essere considerati la summa del Tokyo-pensiero, perfettamente rappresentando l’intera evoluzione dello stile della Compagnia, ma anche probabilmente uno dei migliori programmi mai realizzati dall’ensemble, scevro da gabbie accademiche, da imposizioni narrative e da mimesi didascaliche, con la danza che si fa perenne ricerca di un gesto poetico ed incorporeo che estrinsechi un pensiero interiore, consapevole, spirituale, puro.
Ad aprire le danze, “Dream Time” (1983), uno dei più fulgidi esempi di quell’idea di balletto drammatico non narrativo che ha fatto grande l’opera coreografica di Jirí Kylián, qui idealmente alle prese con le esplorazioni dei rituali aborigeni dettate dalle suggestive composizioni musicali di Toru Takemitsu, da cui traspare tutta la poetica di Kylian, fondata su una coscienza fondamentalmente modernista e su di un vivido talento descrittivo che, da una gamma di movimenti difficilmente rintracciabili nel balletto moderno e spesso inediti per grazia e armonia, gli consentono di lasciar affiorare una indiscutibile complessità di emozioni umane che sono nascoste nei più reconditi angoli dell’anima.
Dal repertorio kylianiano è apparso quasi scontato passare a “Romeo e Giulietta (Pas de deux)” e “Le sacre du printemps”, i due capolavori creati, rispettivamente sulle splendide note di Hector Berlioz e di Igor’ Fëdorovič Stravinskij, dall’irraggiungibile genio di Maurice Béjart, che proprio con il Tokyo Ballet ebbe un rapporto intenso quanto prezioso, al punto da eleggerlo spesso a suo ensemble preferito, per il quale creò balletti in esclusiva, identificando la Compagnia nipponica come la sola possibile depositaria di sue creazioni in quanto capace di estrinsecare quella versatilità tecnica e interpretativa e quella grazia che tanto amava.
Grazie alla perfezione del Corpo di ballo giapponese, l’Arte coreografica del Maestro si mostra ancora pregna di quella magnifica mistura che – come lui stesso amava dire – è composta da “un minimo di spiegazione, un minimo di aneddoti e un massimo di sensazioni”, ancora fonte di emozioni possenti, insopprimibili, indelebili; Béjart, dopo esserne stato insuperabile pioniere, è ancora oggi il re incontrastato, il dominatore assoluto di quel concetto dionisiaco che fece della danza non solo un’espressione di gioia, ma anche il risultato di una profonda analisi della realtà contemporanea, di una ricerca – anche introspettiva – in divenire che guardava con attenzione alle trasformazioni sociali e all’evoluzione cosmopolita culturale, affrontando temi sino a quel momento considerati dei veri tabù (al punto che un capolavoro come “Le sacre du printemps” fu pesantemente contestato alla sua creazione nel 1959), così da approfondire ed affinare le sue idee coreografiche, fino a creare uno stile personale di teatro totale, in cui i diversi linguaggi si relazionavano senza gerarchie, che risultò immediatamente immune dalle vecchie stilizzazioni del balletto classico ma anche da quelle della modern dance.
È così che il Tokyo Ballet ha ancora una volta dimostrato al mondo, ed in particolare al pubblico della Fondazione del Teatro Petruzzelli che lo ha ripagato con vere e sincere ovazioni, il potere trainante e trascinante di quella che viene, probabilmente a ragione, considerata la madre di tutte le Arti, perchè, come amava dire la divina Melissa Hayden, “imparare a camminare ti rende libero; imparare a danzare ti dà la libertà più grande di tutte: esprimere con tutto il tuo essere la persona che sei”.
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography