Federico Fellini avrebbe detto “Amarcord”.
Bei tempi quelli in cui la partita di pallone era più divertente dell’I-phone!
Lino De Venuto anche sulla scorta del suo trascorso calcistico degno di nota, mette in scena, drammatizzandolo, il testo di Francesco Monteleone “Lillino la mezzala”. La sceneggiatura è impostata sulla storia vera di Lino Liuzzi e del suo eccellente talento per il calcio. Sulla scena del Teatro Duse di Bari ridotta all’essenziale, un torso sartoriale abbigliato con la divisa da calcio, un pallone e una valigia stile Mary Poppins sono i dettagli chiamati ad alludere il percorso calcistico e di vita del protagonista interpretato magistralmente da De Venuto, che, evocando anche altri personaggi, conferma ancora una volta la sua straordinaria versatilità attoriale.
Nonostante non sia del tutto atipica la scelta di rappresentare in teatro un monologo su un calciatore, la pièce altamente esilarante e al contempo emozionante risulta di facile lettura anche ai meno sportivi perché conduce tutti, attraverso linguaggi vivaci e situazioni grottesche e brillanti, in una dimensione nostalgica che rimanda ad un tempo lontano, splendidamente genuino e autentico. Un tempo in cui, non importava dove, se si avevano le scarpe adatte o il Super Santos, l’importante era ritrovarsi tutti insieme a giocare a pallone. Quasi tutti i giorni, in genere un’oretta dopo pranzo, con ancora il “mangiare sullo stomaco”, nei portoni, nei cortili, sui marciapiedi o per strada, quando la strada era sicura, schiere di ragazzini si radunavano per dar luogo a epici tornei di calcio. Le regole erano molto flessibili e non vi erano figure adulte a sovraintendere: non esisteva l’allenatore e nemmeno l’arbitro. I due più bravi venivano divisi nelle due squadre, il più “ciuccio” veniva messo in porta, costituita da due scarpe o due tufi giustamente distanziati, e quello poco meglio scelto per ultimo.
I baldi giovanotti non avevano vita facile perché non erano ben visti da tutto il vicinato e spesso erano costretti a fuggire dall’affannato vigile che li inseguiva per sequestrargli il pallone. A volte i poveretti, giravano come nomadi, in più punti del rione con la speranza di trovare un lembo di suolo per poter scalciare e anche quando tutto sembrava volgere per il meglio, come in un film horror, spuntava la massaia che con sguardo truce, inforcando un paio di forbici, si accingeva a squarciare il pallone recuperato sul suo balcone. La partita, che poteva durare due ore, finiva quando tutti, stremati e insozzati fino al collo per la ‘gioia’ delle mamme, stramazzavano al suolo o quando il padrone del pallone decideva di rientrare a casa.
Il calcio era il vero “Credo” per tutti i ragazzini, anche perché alternative non ce n’erano e se di pomeriggio era giocato, la mattina era ricordato anche a scuola. Come dimenticare gli scambi fugaci tra i banchi delle mitiche figurine Panini, puro fenomeno di massa, e del suo album gelosamente custodito in cartella vicino al panino con la frittata!
Lillino nella sua Canneto, era conosciutissimo. Come i suoi coetanei, le sue giornate erano scandite dal gioco del calcio, ma lui, vero talento della natura, si distingueva fra tutti. Le sue performance di calciatore erano strabilianti. Con l’adrenalina a mille, dribblava, tirava, passava e controllava la palla come nessuno. Le sue qualità tecniche erano eccellenti. Giovanissimo fu “spedito” a fare provini nell’Inter, nella Spal, nella Fiorentina, nel Napoli, nella Roma e giudicato da noti allenatori di serie A che gli assegnarono la maglia del fuoriclasse, la numero 10 e in alcuni casi lo tesserarono.
Tutto sarebbe potuto cambiare, la sua vita si sarebbe potuta evolvere, ma lontano da casa si sentiva smarrito, non gradiva rivaleggiare, non sopportava la compagnia scherzosa dei compagni e il clima plumbeo del nord. Con la delusione di quanti in lui avevano visto il grande campione, Lillino tornò a Canneto a giocare con le squadre in cui si sentiva a suo agio, fino a che per una odiosa pubalgia, fu costretto ad interrompere drasticamente di giocare, senza premi, coppe, danaro e fama. A 27 anni, vinto il concorso nella Polizia municipale, diventò vigile. Dopo il calcio, si aprì un nuovo capitolo della sua vita, nella quale si realizzerà come uomo.
Ora il calcio, prima di essere uno sport, è un enorme fenomeno di costume e business e questo squallido contorno, ne ha soffocato la vera essenza. Al giocatore non si associa più prioritariamente lo spettacolo che conduce in campo, ma la sua vita fuori, fatta di case, auto di lusso e procaci signorine al seguito. Resta viva l’immagine con qualche rimpianto e infinita tenerezza, di quanti ogni domenica, con le orecchie appiccicate alla radio prima o riuniti davanti al televisore poi, trepidanti incoraggiavano con veemenza l’azione del calciatore che dal campo, battendosi come un gladiatore all’attacco, conquistava gli spazi per portare il pallone in porta e sentire urlare goal!
“Il calcio è musica, danza e armonia. E non c’è niente di più allegro della sfera che rimbalza.” (Pelè)
Cecilia Ranieri
Foto di Cecilia Ranieri